Siena: anni ottanta


1
 
“Stavolta, mi sa che l’ho perso” mi dico scendendo in fretta le scale. “Correre non servirà”.
Tutte le mattine la stessa scena, almeno quando ho lezione alle 10. Corro comunque, anche se appena uscito un vento gelido mi sferza la faccia e la strada che porta alla fermata dell’autobus è tutta in salita.
Benché rischi quasi tutte le volte, prima d’oggi non l’avevo mai perso veramente, il 5 delle 9 e 27 che mi porta a piazza Matteotti. Da lì, poi, è facile arrivare alla facoltà di Scienze Economiche e Bancarie a cui sono iscritto da tre anni; cinque minuti a piedi per il centro di Siena.
Anche stavolta arrivo che l’autobus sta facendo salire gli ultimi passeggeri. Stravolto e affannato, mi appendo alla maniglia e mi dico anche oggi quello che dico tutti i santi giorni: “E se uscissi 5 minuti prima, Arturo?”
L’autobus parte e comincia a scendere per via Celso Cittadini; fatte poche centinaia di metri, tuttavia, si ferma dietro ad una colonna di auto. E lì rimane.
Strano; strano davvero questo traffico a Siena e in questo punto della città. Sarà successo un incidente. Infatti sento sirene che suonano.
L’autobus ha aperto le porte e molti scendono curiosi di sapere quel che succede. Io voglio semplicemente farmela a piedi, forse così potrei ancora sperare di arrivare in tempo a lezione.
 Giunto al semaforo, vicino alla filiale della Banca Toscana, vedo una quantità mai vista di auto della polizia. A questo punto divento curioso anch’io e mi avvicino ad un signore anziano che staziona sul posto.
“C’è stata una rapina in banca” mi dice, prima ancora che io apra bocca per chiedere qualcosa, ansioso di trovare qualcuno con cui spartire le informazioni che ha raccolto.
“Una rapina? A Siena?”, penso stranito. La notizia ha dell’incredibile.
Speriamo che non si scopra che sia opera di malviventi venuti dal Sud. Altrimenti chi li sente i senesi che già mal sopportano la massa di studenti meridionali che invade la loro città.
“Pare che siano state le brigate rosse” aggiunge il vecchietto visibilmente eccitato dal fatto che per una volta la storia abbia deciso di transitare vicino casa sua.
“Le brigate rosse ? A Siena ?” La notizia non solo è ancora più incredibile ma è anche destinata a modificare il corso della mia giornata.
Addio lezione, vado in federazione.
Se la notizia fosse confermata, occorrerebbe organizzare una manifestazione di protesta.
Il terrorismo non solo è moralmente insopportabile: nessun avvenire glorioso si può costruire impastando la storia con il sangue di vittime innocenti, ma è anche la forma più sofisticata di repressione politica contro tutte le forme di protesta e dissenso.
In federazione c’è molta gente e tanta agitazione.
Mentre discuto con Sergio Daprilino, il segretario della Lega degli Studenti Universitari, sulla eventualità di organizzare un’assemblea di tutti gli universitari al rettorato, arriva il segretario provinciale e si forma un capannello di persone intorno a lui che comunica le novità.
Il questore lo ha informato che i terroristi sono stati intercettati durante la fuga, c’è stato un conflitto a fuoco subito fuori Siena e due carabinieri sono stati uccisi insieme ad un terrorista. Ora il gruppo di fuoco e pare alcuni fiancheggiatori sono in fuga disperata per le campagne intorno alla città e, forse, anche dentro le mura.
Con Sergio prepariamo un volantino in cui invitiamo gli studenti ad un’assemblea alle 14 nell’aula magna che il rettore, seppur con qualche perplessità, ci concede. Oramai in federazione ci sono tanti compagni e tanti universitari. Stampati i volantini ci dividiamo e ognuno di noi va verso le proprie facoltà per effettuare il volantinaggio.
Ci diamo appuntamento con Sergio al rettorato e ci accordiamo che io farò uno degli interventi durante l’assemblea.
L’attacco terroristico ha fatto scalpore nella piccola e sonnacchiosa Siena e anche in facoltà si registra una forte tensione emotiva e una diffusa voglia di “far qualcosa”; ben pochi sono a lezione, quasi tutti nel chiosco e nei corridoi a scambiarsi impressioni e informazioni.
Mentre alcuni compagni continuano il volantinaggio, io decido di andare un po’ in biblioteca per buttare giù qualche appunto sul mio intervento all’assemblea.
Mentre sono assorto nei miei pensieri, mi sento toccare la spalla. Mi giro e rimango di giaccio.
Carmen. La mano sulla spalla è la sua, il viso bellissimo ma pallido e sudato è il suo, gli occhi smarriti sono i suoi.
“Ca.. Carmen, che ci fai qui?” le dico alzandomi.
“Ho bisogno di te, Arturo”.
La guardo interrogativo e perplesso, lei non mi spiega. E’ evidente che non voglia parlare lì davanti a tutti.
“Vieni, andiamo via di qui” le dico e usciamo dalla biblioteca del Circolo Giuridico.
“Arturo, ti cercavo”, mi dice “Ero disperata, quando ti ho visto mi è sembrato un miracolo.”
“Oddio Carmen, hai a che fare con questa storia? Sei pazza?”
Non mi risponde e abbassa gli occhi, in mano ha il volantino che mi ha appena visto distribuire. Poi alza il viso verso di me e i suoi occhi sgomenti si aggrappano ai miei.
Bastano pochi secondi e capiamo entrambi che l’aiuterò, senza se e senza ma, senza farle paternali o comizi, almeno per adesso, senza pensare ai rischi e alle conseguenze. Alla faccia della coerenza e di quello che dirò da qui a poco all’assemblea.
“Andiamo a casa mia, lì nessuno ti cercherà;” le dico “solo te, però. Non voglio vedere nessun altro.”
Appena usciti dal portone della Facoltà, li vediamo entrare dall’arco che da via dei Rossi immette in piazza San Francesco; saranno una ventina fra poliziotti e carabinieri, controllano tutti quelli che passano e avanzano verso il portone.
Non ci resta che tornare in dietro. Ma temo che siamo in trappola. L’ex-convento dei francescani che ospita le facoltà di SEB e di giurisprudenza è attaccato alla cinta muraria e non c’è via di fuga.
“Vieni con me” e saliamo al secondo piano. La mia idea è banale, probabilmente troppo: chiudersi in un bagno. Forse sono i primi posti dove cercheranno, ma non riesco a pensare ad altro.
Conosco un bagno seminascosto nei locali dell’Istituto di Economia, magari quello sfugge loro.
Passando vicino alla segreteria dell’Istituto, vedo che la segretaria non c’è e la porta è aperta. Mi viene un’idea.
“Avvertimi se viene qualcuno” dico a Carmen mentre entro. Ho frequentato l’ufficio perché la ex segretaria era una compagna; spesso ero lì a chiacchierare e so dove sono le chiavi degli uffici dei docenti. Scelgo la stanza del professor Sereni che non vive a Siena e quasi sicuramente non è in stanza e non ci sarebbe stato per tutta la giornata, visto che è venerdì.
Mentre prendo la chiave sento Carmen che dice “Arturo”, poi dei passi di scarpe con tacco lungo il corridoio. La nuova segretaria non solo non è una politicamente impegnata, ma, seppur non più giovanissima, ama vestire provocante. Cerco disperatamente una scusa per giustificare la mia presenza lì. Non la trovo. Mi infilo la chiave in tasca.
“Signora Patrizia, può venire un momento”.
La voce del direttore dell’Istituto, mi salva. La segretaria invece di entrare in ufficio fa pochi passi ed entra nella stanza del direttore.
Raggiungiamo la stanza che ho scelto come ricovero e dopo aver controllato che nessuno ci guardi entriamo dentro.
Sono teso, sudato e con il cuore a mille. Mi siedo per terra e aspetto.
Aspetto che la paura mi passi, aspetto che il respiro torni normale, aspetto di capire cosa ci faccio in quell’ufficio ad aiutare una terrorista che ha appena ucciso due carabinieri.
Lei si siede accanto a me e abbandona la testa sulla mia spalla dicendo solo un flebile “Grazie, Arturo”.
“Grazie, un cazzo”, le urlo. Per poi mordermi immediatamente la lingua: dal corridoio ci potrebbero sentire. Aspetto qualche minuto e con la voce più bassa che posso, parto con il mio pistolotto.
“Avete ucciso due persone, Carmen, due esseri umani che facevano il loro lavoro. Magari due papà che saranno attesi invano dai loro bambini, sicuramente due figli che le mamme piangeranno finché campano. Ma non lo capite che vi stanno usando contro di noi. Proprio per non farlo cambiare questo cazzo di Paese, per continuare a comandare loro”.
Mi giro in cerca di una risposta, ma Carmen sopraffatta dalla tensione sta dormendo, almeno così mi sembra. E nel sonno il suo viso si è finalmente disteso e sembra quasi che stia sorridendo.
Cazzo, Carmen, riesci sempre a sorprendermi. Ma non mi meraviglia per niente il desiderio che provo di accarezzarle il viso e di stringermela fra la braccia portandola lontano da qui, lontano da tutto.
Passano i minuti, Carmen dorme con la testa appoggiata alla mia spalla e io penso a come diventa strana e imprevedibile la mia vita quando entra in gioco Carmen. Fra pochi minuti dovrei parlare davanti ad un’ assemblea di protesta contro il brutale attentato terroristico e al momento sto proteggendo una degli attentatori.
“No, non stai proteggendo uno di loro, stai aiutando la tua Carmen”, penso.
“E non la stai proteggendo dalla polizia, ma da se stessa, dai suoi errori, dal suo passato, dalle sue scelte sbagliate”, continuo.
“Quanto sei retorico”, mi dico, mettendo fine all’inutile dialogo interiore.
Comunque sia, non riesco  proprio a fare altrimenti.
Forse mi addormento anch’io per un po’, perché all’improvviso sento dei passi pesanti e delle voci. La polizia è arrivata al piano dell’Istituto di Economia.
Bussano e entrano negli uffici che trovano aperti. Bussano anche al nostro ma fortunatamente mi ero ricordato di chiudere a chiave.
“Brigadiere”, sento urlare dopo l’ennesima porta che non si apre, “si faccia dare le chiavi di questi uffici. Voglio controllarli tutti.”
Siamo fottuti, cazzo; e adesso che faccio? Penso a mia mamma e alla sua preoccupazione e al suo dispiacere quando saprà. Già mi immagino il suo viso dolente, ma senza traccia di rimprovero, quando verrà a farmi visita in carcere per la prima volta.
Mi figuro come la notizia ecciterà Gustavo Selva che sul GR2 di domani leggerà un editoriale sulla pericolosa contiguità, provata dall’episodio di Siena, fra settori del PCI e terroristi.
Tremo al pensiero delle botte che mi daranno.
Dietro la porta c’è concitazione, la segretaria non vuole dare le chiavi degli uffici dei docenti senza un ordine del preside. Brava Patrizia, forse t’avevo giudicata male.
Il carabiniere o il poliziotto al comando delle operazioni comincia a perdere la pazienza e parte con le minacce, ma lei resiste.
Passa un po’ di tempo, ma alla fine il preside viene rintracciato e dà il suo consenso.
Cominciamo a sentire le porte che una ad una vengono aperte; per un paio di volte sembra che tocchi a noi, quando i rumori sono particolarmente vicini, ma si tratta prima della stanza accanto e poi di quella di fronte, dall’altra parte dello stretto corridoio: ci hanno regalato ancora qualche secondo di vita.
Eccoli. Infilano la chiave nella toppa dell’ufficio del professor Sereni. Girano la chiave. Aprono la porta. Probabilmente danno un’occhiata veloce alla stanza. Chiudono la porta.
Forse, è and..NO!
Riaprono la porta, passa un numero infinito di eterni secondi, forse stanno guardando per sicurezza dietro la porta. Chiudono la porta. Vanno via.
Il tutto non sarà durato più di 10 secondi, forse meno, ma accucciati sotto la scrivania stretti all’inverosimile a noi è sembrata un eternità.
Ora capisco come abbiano fatto a non trovare la prigione di Moro in via Gradoli quando hanno bussato alla porta e, con i terroristi armati dietro l’uscio, hanno girato i tacchi e sono andati via.
Come hanno fatto a non insospettirsi per la poltroncina della scrivania messa tutta fuori, come hanno fatto a non vedere la borsa appoggiata al muro di fronte alla scrivania dove eravamo seduti pochi istanti prima che entrassero e che avevamo, come dei deficienti, lasciato in bella vista? Come hanno fatto a non sentire l’odore della paura che usciva dal nostro fiato?
Ma tant’è che io, Carmen e mia madre siamo salvi, almeno per ora, e Gustavo Selva non saprà mai cosa si è perso.
E io rimango convinto che difficilmente i terroristi verranno sconfitti militarmente, almeno non da questi militari. Verranno sconfitti solo se saranno isolati politicamente, se si farà terra bruciata intorno a loro.
E maledico me stesso perché dovrei essere anch’io a farlo e invece mi sto baciando appassionatamente con una terrorista sotto la scrivania del professor Sereni.


2
 
“Ma dove eri finito?”. Mi dice Sergio, vedendomi.
“Abbiamo aspettato un sacco di tempo e non sei venuto. Che cazzo è successo?”.
Sergio è palesemente arrabbiato e chi può dargli torto? Sono scomparso senza avvertire e mi hanno aspettato invano all’assemblea al rettorato.
Studente napoletano di medicina, simpatico ed intelligente, Sergio Daprilino abita nel mio stesso edificio, nell’appartamento di fronte al mio. Il nostro comune padrone di casa possiede l’intera palazzina di tre piani e a poco a poco ha mandato via tutte le famiglie e affittato le stanze agli studenti, cosa ovviamente molto più remunerativa.
Anche se in politica non siamo sempre d’accordo - lui ha una visione più tradizionalista su quello che un’organizzazione di studenti dovrebbe fare - mi trovo bene con lui. Le cene che facciamo a casa sua con la scusa di parlare di politica finiscono sempre allegramente fra bevute e risate.
Stavolta, tuttavia, avrei volentieri evitato di incontrarlo; mi sento maledettamente in colpa per non essere andato all’assemblea e, ancora di più, per la ragione per cui non l’ho fatto. Mi sembra di averli traditi tutti, i miei compagni. E fra tutto quello che è successo non ho ancora elaborato una scusa plausibile per il mio comportamento.
Io e Carmen siamo rimasti nello studio del professor Sereni fino al pomeriggio inoltrato in silenzio per evitare che ci potessero in qualche modo sentire.
Una volta che la strada era sgombra, siamo andati a casa e Carmen si è chiusa in camera. Io divido la mia casa con altri studenti che potrebbero farsi delle domande e domani magari potrebbe venire diffuso un suo identikit.
Sergio mi ha intercettato sulle scale che tornavo dalla Coop dove ero andato a comprare qualcosa da mangiare.
 “Scusami Sergio, ma mi è capitata una cosa eccezionale”, inizio. “Ti ricordi che ti ho parlato di Ute, l’insegnante di lingua che avevo conosciuto quando ero andato a studiare l’inglese a Oxford?”
“Si, mi pare” risponde.
Gli pare male però, perché sto inventando tutto ex-novo, ma Sergio è fatto così, mai ammetterebbe che qualcosa succeda senza che lui lo sappia.
“L’ho incontrata per caso in Piazza San Francesco, era in viaggio con delle amiche. Non ho resistito, abbiamo chiacchierato, preso un caffè. Ho dovuto faticare un casino per convincerla a trattenersi qui”
Lo vedo ancora perplesso e metto il carico da undici.
“Ti ricordi che ti ho confessato che con lei ho fatto il miglior sesso della mia vita?”.
A questi argomenti, Sergio è sempre stato sensibile.
“Se venivo all’assemblea, l’avrei persa di nuovo” continuo “Ti ho telefonato in federazione, ma eri già andato via”.
Una bugia dopo l’altra ma Daprlino abbocca, pure troppo. “Allora fammela conoscere, questo schianto di femmina” mi dice curioso.
Mi faccio serio, “Non è possibile, Sergio”, rispondo.
“Non mi mettere in imbarazzo, sembra che la espongo come un trofeo.”
“Anzi a proposito. Tu stai andando a Chianciano, vero? E gli altri sono ancora via?”
Sergio ha una fidanzata che lavora nell’albergo di famiglia a Chianciano e lui spesso passa il fine settimana con lei dormendo in una camera libera dell’albergo.
Mi sono sempre chiesto se i genitori della ragazza, piuttosto all’antica, sapessero che Marta ha l’abitudine di raggiungerlo in camera durante la notte.
Gli altri inquilini dell’appartamento di Sergio sono fuori, uno torna sistematicamente a casa il fine settimana e un altro sta all’estero per motivi di studio. Quindi la casa sarebbe stata vuota.
“Non è che posso piazzarmi a casa tua, così stiamo più tranquilli? Da me ci sono tutti.”.
“Ok, non ci son problemi. Ma cambia le lenzuola, e, mi raccomando, non lasciare la cucina e il bagno sporchi”.
Sergio è generoso, un po’ troppo fissato con l’ordine e l’igiene, magari.
“Anzi, visto che ci sei, mi fai un favore? Siccome lunedì torno in macchina, con Marta, mi accompagneresti alla stazione, alle 8.30?”, mi chiede.
“Certo, non c’è problema” .
 “Allora, io adesso vado alla sezione Terracini che mi devo vedere con il segretario, verso le 8 e 15 passi e mi porti in stazione”. Organizza come sempre tutto lui e, questa volta, non mi resta che assentire.
Sergio mi saluta e si avvia.
Fa due gradini, si ferma, mi fissa.
“Ma a Silvia, hai pensato. Dov’è?” Mi dice poi.
Ora sono io ad essere imbarazzato, perché finora a Silvia non avevo pensato proprio. Io e Silvia stiamo insieme anche se non ci promettiamo amore eterno e non facciamo progetti di nozze. Silvia studia medicina e in questi giorni è a Grosseto; sua zia è in ospedale per un operazione, sua mamma è salita da Reggio per darle una mano e lei le ha raggiunte.
“Silvia è a Grosseto e non penso che torni prima di lunedì. Ma questa è un’altra cosa, Sergio, questa è una malattia, un ossessione. Comunque, Ute se ne parte domenica”
“Vabbè, cose tue”, le parole sembrano neutre, ma lo sguardo di Sergio è di rimprovero e mi ferisce.
Neanche io avrei pensato di potermi comportare così, ma lui non conosce la situazione e non sa che non avevo scelta. Non voglio pensare cosa mi direbbe se sapesse la verità e se solo intuisse che non sto tradendo solo Silvia.
Il rimorso alberga per un po’ nel mio cuore affievolendosi quando entro in casa e apro la porta della mia camera e per sparire del tutto quando vedo Carmen distesa sulla sedia a sdraio che uso come poltrona.
“Carmen, ce ne andiamo nell’appartamento di fronte. Avremo tutta la casa per noi e saremo più tranquilli”, le comunico mentre comincio a raccogliere le lenzuola pulite, gli asciugamani e qualcosa’altro.
“Mi dai l’accappatoio che voglio fare una doccia?”, chiede, “e mi presti una tua camicia che lavo la mia roba?”
Carmen è sotto la doccia, quando si fa l’ora di accompagnare Sergio in stazione. La saluto dal corridoio, prendo il portafoglio con la patente ed esco.
Fortunatamente Sergio è allegro, il colloquio con il segretario deve essere andato bene, e l’alone di rimprovero presente prima nel suo sguardo è svanito, sostituito da una punta di malizia.
“Non parcheggiare, scendo al volo, che tu hai di meglio da fare. Non ti stancare troppo, mi raccomando, che Lunedì si ricomincia”.
Apro casa e la trovo quasi buia. Una fievole luce viene dalla cucina da dove sento Carmen cantare.
Mi pare una cosa un po’ imprudente ma lei è fatta così.
In cucina è accesa solo la luce sotto la cappa; Carmen mi volge le spalle e sta lavorando davanti al tavolo di formica gialla.
Si gira solo un momento sentendomi arrivare.
“Avevo voglia di cucinarti qualcosa. Non c’era granché, sto facendo una frittata con le zucchine. Ti piace?”
Senza sentire la mia risposta, torna a voltarsi e a tagliare le zucchine.
Non so se sia consapevole dello spettacolo che mi sta offrendo. Ha indosso solo la camicia a grandi quadri scozzesi che le ho dato e sotto è nuda. La luce che proviene dalla cappa mette in evidenza tutte le curve del suo corpo. E’ a piedi scalzi.
Si gira un attimo verso di me e mi sorride: ne è consapevole.
Impazzisco di desiderio. Mi avvicino al tavolo, mi metto dietro di lei e l’abbraccio. Comincio a baciarle il collo.
Lei nulla dice e nulla fa. Continua a tagliare le zucchine, come se niente fosse.
Le accarezzo i seni da sopra la camicia e sento i capezzoli si induriscono, mi sembra di riconoscerli, mi sembra mi riconoscano. Le sbottono la camicia che le si apre davanti, ora la mia pelle della mia mano tocca direttamente i suoi seni e lei taglia l’ultima zucchina.
La mia mano scende sui fianchi e arriva ad accarezzare le gambe, Carmen prende la ciotola avorio e apre le uova. La mia lingua le lecca l’orecchio destro e lei prende una forchetta per sbattere le uova.
Ora la mia mano è fra le sue gambe, le accarezzo la parte interna delle cosce e arrivo al suo sesso caldo e bagnato. Mi vuole, mi aspetta, mi desidera, e prende a sbattere le uova, come se fosse del tutto normale avere qualcuno che ti accarezza la fica mentre fai da mangiare.
Con le mani le allargo le gambe per prendere pieno possesso del suo sesso e Carmen sala le uova sbattute.
Mi inginocchio e le lecco mordicchiandoli i glutei e infilo poi  la lingua nel solco che li divide. Ora la mia lingua le accarezza la fica e finalmente un sospiro le esce dalle sue labbra ma continua a sbattere le uova.
Mi alzo e mi spoglio; sono pronto, sono tanto pronto che mi fa male.
Carmen adesso lascia la ciotola e la spinge al lato del tavolo, sposta anche le altre cose e si adagia sul tavolo.
Mi prendo il cazzo in mano e cerco la strada per entrare dentro di lei. Lei è bagnata e non è difficile entrarle dentro per la prima volta. Mi fermo e la guardo distesa sul tavolo con una mano vicino alla bocca, le ammiro la schiena, le spalle il bacino, il culo. E’ bellissima.
Le metto entrambe le mani sui fianchi e inizio a muovermi.
“Bentornato a casa” mi dice.
Ed è così che mi sento come uno che apre la porta di casa dopo una lunga assenza, come una nave che ritrova l’imboccatura del porto dopo una tempesta. E devo impegnarmi con tutte le mie forze per non venire subito.
Continuo a muovermi dentro lei godendomi lo spettacolo magnifico del suo culo che balla, dei suoi seni adagiati sul piano di formica, del suo sguardo perso nel vuoto, dei suoi pugni chiusi ma non serrati adagiati sul tavolo.
Si muove anche il tavolo e sopra il tavolo tutto quello che vi è posato sopra; una forchetta finisce a terra e le uova sbattono da sole nella ciotola che piano, piano si avvicina al bordo del tavolo.
Mi fermo; non so perché, forse solo per avere un ricordo in fermo immagine di quanto sta avvenendo, per fissarlo in modo indelebile nella mia memoria.
Poi ricomincio a muovermi più velocemente di prima; il suo respiro si fa più rapido e quasi affannoso; il tavolo ora viaggia per la stanza.
Tutto l’universo converge su quel tavolo, precipitando sul mio cazzo e la sua fica. Altro non esiste. Il mondo fuori non c’è più, si è dissolto, liquefatto.
Lo sento arrivare da dietro la spalla e stavolta non mi potrò controllare. Spingo ancora più forte e il tavolo fa un salto; la ciotola con le uova sbattute ha raggiunto il bordo del tavolo.
“Arturo……” la ciotola finisce a terra, le uova  cadono giù.
La frittata è andata e io vengo.

3

Drin,drin, drinnnnnnnn
Possibile che non ci sia nessuno che vada ad aprire. Dove sono mamma e papà ?
Drinn, drinn,drinnnnnn
Insistono, decido di alzarmi. Sono in pigiama e mi avvio verso la porta di casa. Mi accorgo che la luce è alta; è giorno pieno. Ma perché la mamma non mi ha svegliato per andare a scuola e dove sono tutti?
Drinn, drinn,drinnnnnn
Arrivo, arrivo.
Apro la porta e la prima cosa che vedo è una grande guantiera di dolci e paste. Poi il viso annoiato di un ragazzo poco più grande di me che me la porge.
“Sono per voi” mi dice e aspetta.
Dopo un po’ che non so che fare con lui che rimane davanti alla porta, e io con le paste pesanti in mano, capisce che gli è andata male. Non ho mance da dargli e va via.
Poggio la guantiera sul tavolo e vedo che ce ne sono già altre. Noto un biglietto incastrato sotto il nastro dorato che chiude il pacco, lo prendo, lo apro e scoppia la bomba.
“Rita carissima, infinite condoglianze per la perdita del tuo caro papà, Elio Manca”.
Fu così che, appena undicenne, seppi da un bignè che il mio amatissimo nonno era morto.
Fu uno shock. Passavo spesso il pomeriggio con lui facendo parole crociate o altri giochi di enigmistica (che da allora odio appassionatamente).
Ma i momenti che preferivo erano quando mi raccontava della prima guerra mondiale. Non solo per le descrizioni delle battaglie e della vita di trincea. Ma principalmente per la storia della sua lotta personale contro il nemico.
Lui, la guerra non l’aveva fatta contro gli austriaci ma contro i muli che aveva l’incarico di accudire ma che gli facevano più paura del nemico. E che non riuscì mai a sconfiggere.
Mio nonno, Luigi, che tutti conoscevano come l’austero commendatore, che imponeva con uno sguardo il silenzio di tutti quando partiva la sigla del telegiornale, era il mio nonno dolce e giocherellone dei pomeriggi che passavamo insieme.
Da quel giorno quando sento nel sonno il campanello della porta o il trillo del telefono, immediatamente mi parte il sogno che mi fa rivivere quella maledetta scena. Cambia sempre qualcosa, la casa dove sto, il viso di chi consegna le paste, il biglietto che leggo, ma l’essenza della storia è sempre uguale, così come il senso di lacerante dolore che provo quando apro la porta.
Ultimamente ho notato che la strada che faccio per arrivare alla porta diventa sempre più lunga e mentre cammino ogni volta nutro la speranza che dietro all’uscio non ci sia una guantiera di paste. E ogni volta vengo deluso.
Ironia della sorte, l’unico effetto positivo che avrei potuto avere da questa vicenda, ovvero quello di odiare le paste, non mi è toccato. Già allora affogai il dolore in un kraffen pieno di crema. E tendo drammaticamente alla pinguedine.
Anche stavolta il suono del campanello mi riporta indietro di 10 anni. Non riesco a capire come faccia la mia mente a rivivere tutta la scena nei pochi secondi che passano da quando sento il campanello a quando mi desto.
Mi sveglio quasi gridando:
“Oddio, hanno portato le paste…”
Carmen svegliata anche lei dallo scampanellio, mi guarda stupita.
Non so se abbia pensato che per fare il romantico avessi ordinato delle paste al bar sotto casa.
“Vado a vedere di chi è, tu stai pure qui”.
Alla porta c’è Ernesto, un compagno della lega degli studenti che abita al piano di sotto.
“Ciao, Ernè. Che c’è?”
“A parte il fatto che è quasi l’una e ancora dormivi e sei venuto ad aprire con le mutande alla rovescia?”
“Ovvio, a parte questo”
“Ha telefonato Silvia.”
L’appartamento di Ernesto è l’unico con il telefono e per gli amici fa anche il centralinista.
“Silvia? e ti ha detto cosa vuole? Ma… ha saputo niente? E tu come facevi a sapere che stavo qua?”
“Ha saputo cosa?“ mi fa con lo guardo più malizioso che riesce a fare.
“Senti, ora a parte gli scherzi, la cosa è seria. Ha telefonato un’oretta fa. Ti voleva con urgenza. Io ti ho subito cercato a casa ma non c’era nessuno.”
“Allora ha detto a me. Sua madre ha avuto un infarto, per fortuna era già all’ospedale, ma è molto grave e non si sa se ce la fa. Voleva che tu lo sapessi. Mi ha pregato di dirtelo appena fossi tornato. Mi ha detto che avrebbe ritelefonato all’una e mezza, così potevi farti trovare a casa mia ad aspettare la telefonata. Poi adesso il biondo di Policoro che sta a casa tua mi ha detto che avevi rimorchiato e che forse eri qui. E ho pensato di dirtelo subito.”
“Grazie Ernè, e non ho rimorchiato, ma mia cugina è venuta a trovarmi e allora ci siamo messi qui”
“Non mi prendere per il culo, Arturo. Comunque io quello che dovevo fare l’ho fatto. Ora pensaci tu, tanto io sono a casa.”
Ernesto se ne va, un po’ scocciato. Ha ragione; chissà perché mi è venuto in mente d’inventare la palla su mia cugina. Tanto poi Sergio gli avrebbe raccontato tutto, molto probabilmente.
Trovo Carmen in cucina che prepara il caffè.
Le do un bacio sulla guancia e le dico che vado a farmi una doccia veloce.
In realtà ho bisogno di un po’ di tempo per pensare da solo.
Da venerdì mattina sto vivendo in una specie di delirio. Prima l’avventura in Facoltà con la paura di vedere tutta la mia esistenza cambiata in un secondo.
Da quando poi son tornato dalla stazione è stato un sogno romantico. Per più di 24 ore ci siamo scambiati fluidi corporei e pensieri, baci ed emozioni, ricordi ed esperienze. E abbiamo goduto del piacere dell’altro così come del nostro.
Non abbiamo solo fatto sesso, e che sesso, ma ci siamo conosciuti intimamente esplorando con le mani e la lingua ogni angolo del corpo dell’altra. E negli intervalli ci siamo raccontati le nostre vite durante gli anni passati.
Solo di politica e della sua scelta estrema, Carmen, non ha mai voluto parlare.
“Abbiamo tante cose che ci uniscono, iniziamo con quelle”, mi diceva bloccandomi ogni volta che aprivo l’argomento.
“Magari la prossima volta, parleremo anche di questo”.
Io provavo debolmente ad insistere, ma poi lei iniziava a baciarmi o me lo prendeva in bocca e io lasciavo perdere.
L’acqua scende ma sembra che non riesca a lavarmi.
Guardo l’orologio. E’ tardi; sono quasi le 13 e 30.
Chiudo finalmente l’acqua e vado a vestirmi.
“Il caffè si è raffreddato. Sei stato in bagno una vita. Te lo rifaccio?” Mi dice con un sorriso, quando entro finalmente in cucina.
Penso che non ci sia essere umano che non darebbe l’anima per incontrare un sorriso del genere all’inizio della sua giornata.
“Senti, io scendo un attimo al piano di sotto che aspetto una telefonata. Poi torno e ci organizziamo”
“Vai tranquillo. Dammi un bacio prima di andare”.
Faccio per darle un bacio sulle labbra, ma lei si alza e mi da un abbraccio forte e lungo dopo che l’ho baciata.
Mentre aspetto la telefonata di Silvia, mi scuso con Ernesto e gli racconto la stessa storia che ho raccontato a Sergio.
Adesso capisco perché la polizia negli interrogatori ti fa ripetere tante volte la stessa storia. Se è una bugia, è assolutamente impossibile raccontare sempre la stessa versione a meno di non disporre di una memoria eccezionale o di esserti preparato in modo scientifico, manco fosse l’esame di diritto privato.
Infatti non so se ho raccontato ad Ernesto le stesse cose che ho detto a Sergio. Ma non mi importa.
Silvia telefona alle due meno dieci. E’ disperata; sembra che sua madre non ce la faccia. Piange. Non me lo chiede apertamente ma desidera che io vada subito a Grosseto. Forse se me l’avesse chiesto esplicitamente, avrei provato ad inventare una scusa. Ma i sensi di colpa che da quando ho saputo di sua madre mi martellano la testa e poi il fatto che lei è appesa alla mia voce sperando che io le dica che sto arrivando, mi fanno capitolare.
“Mi metto in macchina e vengo.”
“Ma magari stanotte torno che domani ho lezione” aggiungo da bastardo qual sono, per prepararmi la fuga.
“Grazie amore, ti aspetto in ospedale”
Apro la porta della casa di Daprilino e mi assale un silenzio di assenza e mancanza.
“Carmen, Carmen” chiamo ancora con un filo di speranza.
Giro impazzito tutte le stanze ma lei non c’è.
Sul tavolo, un biglietto.
Fai quello che devi fare che anch’ io faccio quello che devo fare. Ci rincontreremo magari, un magnifico giorno.
Ma stavolta non la lascerò andare senza cercarla. Salto in macchina e inizio a girare per il quartiere, in fondo non può essere andata lontano.
Vago disperato per un’ora abbondante, entro in un paio di bar, guardo alle fermate dell’autobus.
Ma non la trovo. 
Alla fine, depresso, imbocco lo svincolo per Grosseto.

 
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Non ho nemmeno voglia di mettere l’auto in garage. Il viaggio è stato lungo e ho bisogno urgente di letto e sonno.
Che giorni tremendi.
Carmen è andata via di nuovo, la mamma di Silvia è morta poco dopo il mio arrivo a Grosseto. Il tempo di tornare a Siena a prendere qualcosa e siamo andati in Calabria per il funerale.
Non potevo farla andare da sola. Mi sono trattenuto giù fino a oggi, ma ho le lezioni e gli esami da preparare e poi non ce la facevo più. Troppo dolore, troppa menzogna.
Nella cassetta delle lettera intravedo una busta. Non l’avrei degnata di attenzione, rimandando tutto a domani.
Ma inizio a fare le scale di corsa per prendere la chiave della cassetta che lasciamo accanto alla porta d’ingresso: ho riconosciuto la calligrafia, è di Carmen.
L’apro e mi stendo sul letto.
Caro Arturo,
non sai quante volte ho iniziato a scrivere questa lettera, buttando poi via il foglio. Perché non so che parole usare per dire che mi scuso con te. Mi scuso anche se non son pentita di quel che ho fatto, e ti confesso che lo rifarei.
Non mi voglio scusare per essere uscita in fretta dalla tua vita, senza nemmeno salutarti. Lo sai anche tu che date le circostanze, altro non potevo fare. Era tuo dovere stare vicino a Silvia, era mio dovere stare lontano da te e darti la possibilità di farlo.
E poi temevo che magari inconsciamente ti ritenessi colpevole di quanto successo. E invece tu non hai nessuna colpa.
Mi voglio scusare per essere entrata nella tua vita utilizzando uno stupido inganno.
Quando ti ho visto distribuire i volantini, come tante altre volte abbiamo fatto insieme, ho capito che tu non eri solo uno splendido ricordo dei miei anni più belli, ma eri rimasto il mio Arturo, l’unico grande amore della mia vita.
Volevo dirti: “Arturo aiutami, sono disperata e distrutta e ho bisogno di stare un po’ con te se tu vuoi, un’ora, un giorno o tutta la vita.”
Tu hai equivocato pensando che avessi a che fare con le BR.
Ti avrei corretto subito se non avessi letto nei tuoi occhi qualcosa che non capivo ma che mi piaceva immensamente. Tu volevi difendermi, eri disposto a rischiare tutto per me.
Non so dove ho letto che a volte capitano nella vita degli “orgasmi bianchi” delle gioie talmente intense da ricordare una scarica di piacere erotico anche in assenza di una qualsivoglia stimolazione sessuale. Guardare i tuoi occhi in quel momento, mi ha dato un piacere talmente intenso che me lo son tenuto.
E dopo quello che era successo nello studio con noi stretti sotto la scrivania come avrei potuto dirti la verità senza rischiare di rovinare tutto?
L’ultima notte che siamo stati insieme ti vedevo dormire ed ero ìi distesa a rimuginare. Stavo male, ma avevo trovato pace con te. Sono stata proprio bene e non sai quanto ne avessi bisogno.
Avevo deciso di dirti tutto quella mattina, poi accadde quel che accadde.
E quindi te lo dico adesso.
E ti scrivo anche che vado via.  Devo andare in Grecia a salutare mio padre e a  fare i conti con lui e con il Paese dove sono nata.
Avevo la sensazione che la mia vita stesse cambiando per sempre, e volevo vederti. Ero venuta a Siena per parlarti. Avevo un sogno: che mi accompagnassi in Grecia. Ma le cose sono andate diversamente, come ben sappiamo.
E di nuovo, partire e andar lontano da te mi sembra l’unica cosa saggia da fare.
Sii felice, Arturo, e cercherò, se ce la faccio, di esser felice anch’io.
Carmen

Mi sento ridicolo e sono arrabbiato. L’avevo aspettata tanto questa lettera.
E se la polizia ci avesse trovato che ci nascondevamo sotto la scrivania del professor Sereni?
Carmen, perché è sempre tutto complicato con te?

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