Non sono mai andato a puttane.
Non certo per ragioni morali o religiose.
Se paghiamo chi ci prepara da mangiare o ci fa un massaggio, perché non pagare anche
chi ci fa l’amore? Mi sono sempre ritrovato però nel verso della canzone di
Baglioni “una storia va a puttane, sapessi andarci io”. Ecco, io non ci so
andare e non so bene perché.
Altrimenti non avrei fatto cenno
di no alla bella ragazza dell’est che si era avvicinata alla mia macchina,
ferma in una piazzola di sosta della statale della val Bormida che porta ad
Alessandria. Forse con lei avrei potuto stordirmi e non pensare. Mi doveva aver
preso per un cliente particolarmente timido. Non la chiamavo e non mi
avvicinavo. Timido ma appetibile, a giudicare dalla BMW serie 6 sulla quale mi
trovavo. Stanca di attendere, aveva deciso di fare il primo passo. Ma io non mi
ero fermato per lei, avevo accostato perché ero sconvolto.
“Ciao Enrico, sono Giuseppe….
Giuseppe Flascassovitti. Senti, … Cazzo…. non so dirtelo diversamente. Barbara
ha avuto un incidente gravissimo, sta molto male, chiede di te”. La voce
s’incrinò, fece una pausa sforzandosi di non piangere.
“Ma devi fare presto”.
Giuseppe e Barbara, un tuffo nel
passato. Sembra un’altra vita, sicuramente è un altro tempo e un’altra città. Barbara
non la vedevo da più di dieci anni e Giuseppe forse da cinque. Barbara la
sognavo spesso e di Giuseppe leggevo su internet tutti gli articoli che
pubblicava sul quotidiano locale della città dove ero nato, una marea di anni
fa, dove non tornavo da venti anni o giù di lì.
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1990, Facoltà di Matematica e Fisica dell’Università di Lecce, riunione
del collettivo “La pantera simu nui”.
E’ sera, l’aula 5 del Fiorini è piena di studenti. Sembrano quasi
tornati gli anni settanta, gli anni di quell’impegno politico di cui padre di
Enrico ogni tanto parla con nostalgia. Una pantera fuggita che vaga spaurita
per i dintorni di Roma, ha regalato il nome a un movimento studentesco che sta
infiammando gli atenei e le scuole di tutta Italia.
Enrico brucia principalmente per la straordinaria visione delle gambe
della ragazza che gli sta di fronte. Alzando gli occhi vede che anche lei
guarda lui. Si vergogna di essere stato colto sul fatto, come se si potessero leggere
in un fumetto i pensieri che gli frullano per il capo. Ma lei sorride e lui
annega in quel sorriso.
Così quando lo studente al microfono chiede chi s’intenda di computer
ed informatica per contribuire alla creazione di Okkupanet, una sorta di collegamento
in rete dei computer delle università occupate sparse in tutta Italia e vede la
sua mano sollevata, l’alza anche lui, sebbene stia scrivendo una tesi di teoria
dei numeri, sull’ultimo teorema di Fermat e conosca solo il giusto sui computer
e nulla sulle reti informatiche.
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Barbara era un piccolo,
bellissimo genio. Parlava il linguaggio dei computer meglio dell’italiano. Lei
era straordinaria, ma anche gli altri non scherzavano: non dimenticherò la
soddisfazione che provammo quando mandammo via fax alla Cattolica di Milano il
codice di programmazione che gli permise di connettersi alla rete. Il Sud che
da sempre arranca in ritardo dietro il Nord, stava insegnando a tutti come si
costruisce un’autostrada digitale.
Una sera finito di lavorare, mentre
stavamo per andare tutti a mangiare una pizza, un ragazzo biondo di una
bellezza sconcertante venne a prendere Barbara. Lo odiai con tutte le mie
forze. Se ne andarono insieme a braccetto. Il mio risentimento fu così plateale,
com’era stata a tutti evidente la mia passione per lei, che fui oggetto di
scherzi bonari e pacche sulle spalle.
Non ho mai dimenticato il viso di
Barbara e i suoi profondi occhi neri, il giorno dopo. Ancor meno quel che mi
disse mentre ci prendevamo un caffè.
“Giuseppe è il mio più caro
amico. Gli voglio bene come a un fratello. Ma non stiamo insieme. Peraltro a
lui le donne non piacciono”.
Aggiunse che era un ragazzo straordinario, compagno di scuola dalle elementari,
suo amico da sempre. Studiava lettere e voleva fare il giornalista.
Così iniziò la nostra storia.
Era stata la mia prima donna vera. La prima volta e l’ultima che una
donna mi faceva sciogliere il cuore solo guardandomi, la prima volta e l’ultima
che una donna gridava forte il mio nome mentre veniva, la prima volta e
l’ultima che una donna golosamente imburrava una fetta biscottata, la copriva
di marmellata di arance e ancora più golosamente me la offriva.
Giuseppe divenne il mio più caro amico.
Abbandonai i ricordi, mi ricomposi e presi rapidamente la mia decisione,
per una volta. Richiamai il numero e lui mi rispose subito.
“Scusa Giuseppe, ma sono in macchina ed è caduta la linea” dissi,
mentendo perché, disperato, avevo chiuso io, deliberatamente prima di fermarmi
in una piazzola di sosta.
“Parto prima che posso, ci vediamo giù. Ti chiamo appena so quando
arrivo”.
Ora dovrò trovare il coraggio di dirlo a mia moglie e a mio suocero. Lui
è anche il mio capo e domani saremmo dovuti partire per il Lussemburgo per
concludere un affare da decine di milioni di euro.
A mia moglie qualcosa di Barbara ho detto, non tutto e nemmeno
abbastanza. Non le ho mai raccontato delle notti nelle quali la sognavo: erano
sempre sogni bellissimi. Mai le avrei parlato del dolore cocente che avvertivo quando
dopo il risveglio mi rendevo conto che solo sogno era stato. C’era in mia
moglie qualcosa che non avevo mai capito: si era innamorata di me perché ero
molto diverso da suo padre ma poi aveva fatto di tutto perché diventassi come
lui. Io non la odiavo perché lentamente aveva scolorito la parte migliore di
me, odiavo me stesso per averglielo lasciato fare.
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1991 Teatro Romano, centro
storico di Lecce.
Lui e Barbara sono seduti fra i
gradini del teatro in una dolce e tiepida giornata d’ottobre, il giorno dopo la
laurea di Enrico. Fra i due palazzi barocchi che circondano il teatro, l’ultimo
spicchio di sole tenta di resistere all’oscurità che avanza colorando di rosso
i muri delle case.
“Sono affascinata dall’alchimia.
Forse perché mi piace vivere al confine fra il giorno e la notte, la scienza e
la magia”, dice mentre apre la borsa blu a zainetto che non abbandona mai.
“O forse m’intriga la ricerca
in quanto tale; l’alchimia è la ricerca per antonomasia: una ricerca
impossibile e infinita, destinata a durare per sempre. Come il mio amore per
questa terra e queste pietre o questo particolare momento del giorno. Come il
mio amore per te.”
Dalla borsa prende un
pacchettino e glielo porge.
“Il mio regalo di laurea”.
Non sa bene perché, ma gli
tremano le mani mentre lo apre. Quello che trova lo sorprende. Una pallina di
rame legata a una catenella d’oro sottile. Una pallina levigata e liscia che
sembra una perla, una perla di rame.
“Rame e oro, simboli degli
alchimisti che li associano con Venere e il Sole”
“Venere è la stella della sera,
raggiunge la sua massima brillantezza all’inizio dell’oscurità. Come se Dio o
chi per lui, ci volesse invitare a non aver paura del buio. Anche in una notte
senza luna, Venere brillerà per noi. Come le lucine che le mamme accendono per
i bimbi che hanno paura di affrontare il sonno da soli. Una luce che ricorda
che il buio non è mai totale, non è mai per sempre”.
“L’oro è per dirti che sei
bello come il sole”.
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Il viso di mia nonna era segnato dalle rughe e dalle lacrime, quando la andai
a salutare il giorno prima della partenza per gli USA. Mi dette una foto da
portare con me: io e lei, sulla spiaggia di San Cataldo dove mi portava l’estate,
quando ero piccolo.
“Cu nu te scerri ci senti e de du ieni.”
Mia nonna dall’alto della sua licenza elementare aveva intuito quel che
tutti gli altri, compresi io e i miei genitori, non avevano compreso: quello
era un addio e non un arrivederci.
Avevo vinto una borsa di studio, le mie intuizioni sull’enigma secolare
di Fermat avevano incuriosito il professor Wiles di Princeton che da anni si
occupava della questione.
Barbara si era laureata in Fisica col massimo dei voti e avrebbe avuto la
possibilità di fare il dottorato in qualunque università europea e americana.
Invece aveva iniziato a lavorare per il centro di calcolo dell’Università. La
situazione economica della sua famiglia lo consigliava e lei comunque andava
cercando un pretesto per rimanere dove voleva stare.
“Io ti aspetto qui, tanto lo so che torni” mi disse, dandomi l’ultimo
bacio mentre già il capostazione fischiava la partenza.
Invece non tornai, non tornai più veramente.
A Lecce riandai solo per seppellire le mie persone care, mia nonna che
non era passato neanche un anno, i miei genitori l’anno successivo, travolti da
un ladro in fuga, mentre attraversavano la circonvallazione col verde e sulle
strisce, rispettando la legge, come avevano fatto tutta la vita.
Intanto avevo incontrato Christine a un party dell’Italian society di
Princeton al ritorno, da orfano, in America. Lei voleva consolarmi, io mi feci
consolare affondando in quelle grosse e materne tette germaniche.
Barbara non seppe nulla, forse qualcosa immaginò, ma capì che ci stavamo allontanando.
Così quando finì il dottorato, Barbara non volle venire ad assistere alla
discussione della mia tesi.
“Tanto tu non vuoi più tornare” mi scrisse.
Aveva ragione. E non ero più tornato, letteralmente.
Dopo il dottorato, diverse università americane mi offrirono contratti di
insegnamento, ero un allievo di Wiles e lui con la soluzione all’enigma di
Fermat era diventato il matematico più famoso del pianeta. Ma dentro di me
qualcosa si era rotto e l’ambiente americano era troppo competitivo per la mia
innata pigrizia. Partecipai quasi per
caso a un concorso per ricercatore a Trento e lo vinsi. L’avventura americana
finì così, senza rimpianti.
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Seduto in un bar di piazza del
Campo, Enrico si sforza di comprendere il problematico inglese di due colleghi
giapponesi, durante la pausa di un noioso convegno di crittografia digitale. D’improvviso
la vede. Più che altro gli appare. Il sole che tramonta le disegna intorno un
cono di luce, come se fosse sul palcoscenico a teatro.
Al diavolo i giapponesi, lui va
da Barbara.
2001 Domenica, Albergo Santa Caterina, Siena.
Barbara si sta facendo la
doccia, canta, è contenta. Lui a letto distrutto. Non solo per il bellissimo
sesso che hanno fatto per gran parte della fine settimana. Si alza e inizia a
vestirsi.
Hanno vissuto questi giorni non
come una parentesi ma come un nuovo inizio, ubriacati dal fatto di essersi
ritrovati. Lei ha fatto piani e progetti che lui passivamente ha assecondato. Ha
trascurato di dirle che è fidanzato; ma anche lei ha una storia da chiudere,
non è questo il problema.
“E la perla di rame? Non sai quanto significhi
per me”. Gli aveva chiesto.
Enrico aveva giurato di non
averla persa, l’aveva solo tolta e riposta quando la catenina si era rotta
giocando a calcio, al ritorno dall’America.
Su questo non ha mentito, le ha
taciuto, invece, una cosa più importante: fra una settimana precisa, nella
chiesa di San Sebastiano e Dalmazzo ad Alessandria, erano fissate le sue nozze.
Aveva deciso di cambiare vita, lasciare l’università e andare a lavorare col suocero,
proprietario di una grande impresa nel settore farmaceutico. Stellina è figlia
unica ed entrambi volevano che entrasse in azienda. Enrico aveva resistito, all’inizio,
ma poi si era lasciato convincere. Il padre di Stellina è un bastardo senza
valori ma sa essere convincente e principalmente aveva pigiato i tasti giusti.
Aveva capito che era stufo dello scarso stipendio che l’università italiana gli
offriva e del mondo della ricerca in generale. Non era un genio, questo gli era
chiaro da tempo, e l’idea di essere un quadro intermedio della ricerca in un
paese in cui scienziati e ricercatori non sono certo in cima alle preferenze
sociali nemmeno quando sono geniali, non lo attirava più.
Giuseppe, il più grande
idealista che avesse mai conosciuto, avrebbe semplicemente detto che si era
venduto. Avrebbe avuto ragione, ovviamente. Una casa favolosa, i ristoranti più
eleganti, gli alberghi più lussuosi, le auto che aveva solo visto sui giornali:
a queste cose, quando cominci ad abituarti, non riesci più a fare a meno.
Per qualche ora, aveva anche
lui creduto che potesse mollare tutto e ricominciare con Barbara. Per qualche
ora.
Mentre chiude la porta, sente ancora Barbara cantare sotto
la doccia.
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Hanno sostituito le poltroncine di legno giallino con sedili di plastica
dai colori sgargianti, hanno ingrandito la hall, hanno messo nuovi negozi.
Anche il nome è cambiato: non è più l’aeroporto Casale di Brindisi, ma è
diventato, giustamente, l’Aeroporto del Salento.
Mentre aspettavo il bagaglio, intravidi Giuseppe che mi attendeva, aldilà
dal vetro. Si era tagliato la barba con cui l’avevo visto in una delle ultime
foto pubblicate sul giornale online che dirigeva. Sembrava più giovane, era
ancora bellissimo. Immaginai che le donne continuassero a fargli una corte
spietata nonostante la sua dichiarata omosessualità.
I nostri sguardi s’incrociarono e la mia bocca si aprì in un largo
sorriso riflesso istintivo del cuore felice di rivedere un amico caro. Gli feci
un espansivo gesto di saluto con la mano.
D’un tratto mi vide anche lui, accennò un lieve sorriso, ma lo sguardo era
triste. Infine piegò la testa verso il basso. Io capì. Per quanto avessi fatto
presto, ero arrivato troppo tardi.
Il suo abbraccio affettuoso mi diede una sensazione di calore e di gioia
che non sentivo da secoli.
“Quando è successo ?” chiesi, una volta in macchina.
“Poche ore fa, quando cominciava a fare sera”.
A quell’ora io stringevo fra le mani la sua perla di rame. L’avevo
trovata in soffitta nell’armadio dove tenevo varie cose del passato. Non sarei
partito senza e avevo preso il volo successivo proprio per avere il tempo di
prenderla.
“Venere la sta illuminando nel buio” pensai, meravigliandomi di sentirmi
rasserenato da questo stolto pensiero. Improvvisamente la diga si ruppe e le
lacrime cominciarono a sgorgare copiose. Piansi come un bambino distrutto da un
dolore adulto.
“Come potrai immaginare, sei stato il nostro argomento preferito di
conversazione per anni. Enrico di qui, Enrico di lì. Poi all’improvviso, una
decina di anni fa di te non volle più parlare. Se io iniziavo raccontandole,
magari, che ci eravamo sentiti per telefono o per mail, lei subito cambiava
discorso”.
“Pensai che fosse perché era incinta e di li a poco, infatti, si sposò
con Alberto con cui stava da un qualche anno. Persona per bene, insegna storia
e filosofia al De Giorgi. Non ti nego che fui contento che si fosse un po’ emancipata
da te. Mi sembrava di vederla finalmente cresciuta.”
“Poi l’altro ieri, un’infermiera che conosco, mi disse che nel coma continuava
a chiamare un certo Enrico. Visto che non era il nome di nessun familiare e che
ne hanno viste di tutti i colori, sono stati cauti e al marito non hanno detto
niente, ma hanno avvertito me. E io te.”
“La figlia di Barbara, come si chiama?”
“Angela Venere”.
Erano le 11 di notte. La luna non c’era e il cielo splendeva di stelle.
Mi sarebbe piaciuto vedere la Venere del cielo, ma dal cruscotto non riesci a trovarla.
Pregai Giuseppe di fermarsi nella prima piazzola della superstrada
Brindisi-Lecce.
“Cos’è non stai bene?”, fece lui mentre scendeva con me. Rimase in
silenzio mentre scrutavo il cielo.
Stavo cercando Venere, stavo cercando Barbara. Sapevo che devo guardare
verso est. Me lo aveva insegnato lei, quella notte che avevamo passato insieme
sulla spiaggia del Frascone subito dopo Porto Selvaggio.
Noi stavamo andando verso Sud, quindi l’est era alla mia sinistra. La vidi
e un brivido mi scosse, sembrava brillasse solo per me.
Addio, dissi.
“Cosa vuoi fare? Lei, non la possiamo vedere, l’obitorio chiude alle 11”
disse Giuseppe quando risalimmo in macchina.
“Hai taralli, formaggio e olive a casa?”
“Certo e anche del buon vino”.
“Di questo non dubitavo, ma devi averne tanto. Andiamo a casa tua e ni mbriacamu a stozze”.
Oggi, cinque mesi dopo.
Mia nonna aveva torto e Barbara ragione. Alla fine son tornato.
Per il momento sto a casa di Giuseppe, che attraversa un lungo periodo di
singlitudine. Ma sono in trattative per
un appartamentino nel centro storico.
Da mia moglie e da mio suocero non ho voluto niente. Solo ciò che per
contratto mi spettava. Mi ha dato l’idea che entrambi fossero alla fine quasi
sollevati che fossi andato via. Ho detto addio alle macchine costose, alle
belle case. Non vado nei più ristoranti da guida Michelin, ma qui si mangia
bene dappertutto e poi sarebbe il caso mi mettessi un po’ a dieta.
Con i soldi che avevo messo da parte e con la liquidazione ottenuta, ho
aperto una piccola attività con Nicola uno dei fratelli di Barbara. Siamo
partiti dall’idea di vendere in rete in tutta Italia e anche all’estero,
l’ottimo olio che lui produce. Poi ci siamo allargati a vari prodotti
salentini, dalle friselle alla cotognata, dai pomodori secchi al vino.
Nel frattempo, per non dimenticare chi ero, do ripetizioni di matematica.
Da poco più di un mese abbiamo aperto un negozietto in centro che vende
prodotti a chilometro zero: chi non vuole acquistarli online, può venire da noi.
Lavorare in negozio mi piace particolarmente, perché spesso Angela Venere
viene a trovare suo zio. Siamo diventati
amici e spero mi voglia già un po’ di bene. Fortunatamente tutti la chiamano
solo Angela.
Ogni tanto mi perdo a guardarla senza che lei se ne accorga. Mi sorprendo
a fare il gioco squallido delle rassomiglianze. Alcuni giorni mi pare che
assomigli a mia madre, per come si muove, per la voce o per il taglio degli
occhi. Altri le vedo fare gli stessi gesti del padre col quale condivide il
colore dei capelli. Non saprò mai la verità. Né mai parlerò a nessuno dei miei
sospetti.
E comunque non me ne importa, il solo vederla mi rallegra il cuore. Ho
scoperto quanto sia bello amare così tanto una persona ed essere del tutto
indifferente, non solo al fatto di esser ricambiato, ma anche semplicemente al possibilità
che lei sappia di questo grande amore.
Sono sereno come non ero da tanto, oserei dire felice seppur con quel
retrogusto amaro che mi dà il sapere che Barbara non è qui per vedere che poi
sono tornato. Come aveva sempre sperato.
Con Nicola vado d’accordo. Solo una volta abbiamo discusso un po’
animatamente: quando scegliemmo il nome del sito e poi del negozio. Non ha mai
capito perché ho voluto a tutti costi chiamarlo,
“La perla di rame”.
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