La notte in cui il mimo d’oro mi raccontò la sua storia


Il fondo del bicchiere era nuovamente asciutto, ma avevo ancora sete. La bocca era amara ma sempre meno dell’umore.
Che cazzo ci facessi in questo locale di lap dance dei poveri in un paesino sperduto della provincia pugliese, Dio solo lo sa.
Ricordo che cercavo un posto con fica e alcool. Ma orami avevo bevuto tanto che le donne non le vedevo più. Troppo per tornare a casa in auto.
Mi sentivo osservato.
Qualche anno fa avrei chiamato papà e lui mi avrebbe riportato a casa: la mamma mi avrebbe fatto qualcosa di caldo con cui avrei vomitato l’anima e dopo mi sarei addormentato come un bambino. Lei mi avrebbe rimboccato le coperte e spento la luce.
Ma a quarantadue anni non abbiamo più la faccia di chiamare la mamma o quando, come nel mio caso, ce l’avremmo anche avuta, non abbiamo più la mamma. E mio padre è nei caraibi con la sua barca a vela e una fidanzata trentenne.
Avrei dormito in macchina: era una calda notte di settembre e si poteva fare.
Quell’uomo era un po’ che mi guardava. Il suo viso non mi era nuovo. Forse un omosessuale in cerca di compagnia, la sua strategia era consolare i delusi dalle donne. Con me aveva colto nel segno; stradeluso e schifato, ecco cos’ero. Ed ero li a vedere femmine in vendita per sentirmi quello che comprava le donne.   
Gli uomini non mi erano mai piaciuti e quella sera non ero certo in vena di esperimenti.
“E’ la prima volta che vieni qui, vero?”
Non l’avevo sentito avvicinarsi. Ero proprio andato. Non vi nego che un po’ mi spaventai quando me lo trovai accanto.
“Tu non sei come gli altri che vengono qui a vedere un po’ di pelo e a comprare un po’ di sesso. Tu ti vuoi estrarre un dente che ti duole e pensi di farlo con il whiskey”
“La verità è grappa, il whiskey non mi piace” dissi.
“Hai qualcuno che ti venga a prendere, non puoi certo guidare conciato così”.
“Chiama un amico, un parente, qualcuno”.
“Non voglio che mi vedano così e non ho parenti. Pensavo di dormire in macchina”
“Io ho finito di lavorare e abito qui vicino. Puoi dormire sul divano”.
Lo guardai con diffidenza.
“Non sono gay. Ma mi piace offrire una mano tesa e un divano a chi ne ha bisogno”.
Eppure mi sembrava di conoscerlo.
Senza sapere come, mi ritrovai seduto su di un vecchio divano verde con i braccioli consumati con una bevanda rossa in mano che odorava di salsa.
“Succo di pomodoro, fa bene se sei strafatto di alcool.”.
“Almeno a me fa bene”, disse. “E io sono ubriaco spesso, quando non lavoro.”
Iniziò a arrotolarsi una sigaretta. Per farlo si era messo di profilo per non far cadere il tabacco o quel che era. Fu allora che lo riconobbi.
“E quando non bevo, fumo. Ne vuoi ? E’ roba buona. Non quella geneticamente modificata che ti sballa subito, questa è roba biologica. Viene direttamente dal centro America. Ti culla e ti abbraccia come una donna che ti ama.”
L’accese e me la passò. Tirai una bella boccata e sentì il fumo caldo entrarmi dentro. Tossì e un conato di vomito mi sconquassò e dovetti correre in bagno. Vomitai.
Tornai sul divano disfatto.
“Tu sei il mimo dorato di piazza Garibaldi” gli dissi dopo che mi fui un po’ ripreso, “quello tutto dipinto di giallo con una cinepresa e ogni tanto fa finta di fare delle riprese. Sta sempre fermo anche quando gli mettono le monete nel recipiente di latta.”
Annuì e mi passò quel che era rimasto della prima canna, mentre si preparava la seconda. Feci solo un altro tiro e gliela restituì mentre le palpebre si facevano pesanti.
Proprio allora cominciò a parlare. Io un po’ lo sentivo e un po’ no. Trovavo a stento la forza di interloquire, sebbene non sembrava far tanto caso a ciò che dicevo io. Era un fiume in piena.
E dire che temevo facesse domande su di me e sul dente che volevo togliermi, come aveva detto lui. Non mi sarebbe dispiaciuto raccontare ad un estraneo di come una stronza che ancora amavo alla follia mi avesse condotto alla rovina. I miei amici si erano stufati di sentire la storia e io di sentire sempre lo stesso consiglio: “Mandala al diavolo”.
Ma lui mi aveva preceduto e parlava, parlava, parlava. Ogni tanto mi passava la sigaretta arrotolata, ma io il più delle volte rifiutavo: ero già partito per il mondo dove non esistevano né pavimenti né soffitti e le cose bastava desiderarle per averle.
Mi svegliai che era giorno fatto. Il mimo d’oro non c’era più, la poltrona dove l’avevo visto arrotolarsi quella che mi era parsa un’infinità di canne era inondata di sole che proveniva dalla finestra alle mie spalle. La luce mi pugnalava la testa rendendo insopportabile l’emicrania, ma era anche calda e rassicurante.
Il mondo continua anche dopo una sbornia, sembrava dire. 
Mi alzai e feci una lunga e doverosa visita al bagno.
Puoi sapere tanto di una persona vedendo cosa legge mentre è seduto sul gabinetto.
Il mimo d’oro leggeva Topolino e la settimana enigmistica. Un mix accettabile. Era un uomo ordinato e previdente tanto che la penna con cui risolveva cruciverba e altri giochi era legata al ripiano con una cordicella. Temeva forse che se gli fosse venuto in mente l’affluente di destra del Po, sette lettere, e non l’avesse scritto subito, la volta prossima l’avrebbe trovato prosciugato.
Il mio ospite non c’era neanche in cucina. Ma vicino alla caffettiera c’era un suo biglietto. “Buon giorno, sono al lavoro, alla sagra del vino. La macchinetta del caffè è già pronta. Alla prossima”.
Avrà fatto anche il mimo per campare, ma era un gran signore, con tutto quello che aveva passato.
Già, aveva avuto una vita drammatica, una storia familiare complicata, ma non mi ricordavo niente, annegato com’ero nella grappa e nelle canne.
Come quando ci si sveglia sicuri di aver fatto un incubo tremendo ma i particolari del sogno si sono persi nei meandri della mente e sono svaniti con la luce del giorno. Ti rimane solo un retrogusto di dolore nell’anima che sparisce con la prima cosa bella che ti capita al mattino: il sorriso della tua donna o la canzone che ti piace che passa alla radio.
Anche la sua storia si era dissolta al mattino. Ma sapevo che aveva sofferto.
La giornata era proprio calda: una splendida domenica mattina.
La mia Altea XL era ancora lì. L’avevo comprata cinque anni prima, quando pensavo che l’avremmo potuta imbottire di figli e bagagli. Negli ultimi mesi l’avevo riempita solo di lacrime e ammaccature. Le ammaccature rimediate spesso per la rabbia e la fretta quando la seguivo per vedere dove andava. Non vi sorprenda, per lei ho fatto anche di peggio. Le lacrime quando scoprivo dove andava e con chi stava. Ma non l’avevo mai portata né all’autolavaggio né dal carrozziere.
Carrozziere…..si accese una scintilla. Il mimo d’oro prima di fare il mimo era un carrozziere e viveva in un paesino del Veneto.
Come capita anche nei sogni una parte del racconto mi tornò alla mente.
“Stavo per chiudere la carrozzeria, quando mio fratello mi telefonò chiedendomi di aspettarlo in officina; sarebbe arrivato quando fosse stato certo di trovarmi solo. Non mi sorpresi più di tanto, lui era fatto così: faceva sempre cose strane e a volte si cacciava in qualche guaio. Ma era mio fratello maggiore: erano rimasti solo noi due. I nostri genitori  erano morti abbastanza giovani e benché fossi più piccolo, gli avevo fatto da padre e madre.
Capì che questa volta la storia era ben più seria quando vidi la macchina ammaccata sulla parte anteriore destra e le macchie di sangue, malamente cancellate, sulla carrozzeria.
Mi raccontò che non l’aveva visto, probabilmente stava facendo jogging sul ciglio della strada, lui stava armeggiando per cercare un cd e quando aveva alzato gli occhi era troppo tardi. Aveva visto il suo viso schiacciarsi sul parabrezza.
Ed era scappato in preda al panico, spaventato anche perché aveva bevuto un paio di spritz e qualche bicchiere di vino a pranzo con gli amici. Non era ubriaco, mi giurò, ma sarebbe sicuramente risultato positivo al test alcolemico. 
Lo pregai e ripregai di tornare su suoi passi, avrebbe dovuto ammettere di non essersi fermato, ma sarebbe stato compreso. Magari l’uomo non si era fatto poi così male. Mi disse che non era così semplice. Dopo l’incidente era andato a casa, aveva chiuso la macchina in garage, aveva preso la moto ed era tornato sul luogo dell’incidente. C’era già la polizia, ma nessuna ambulanza, solo un lenzuolo bianco steso su di un corpo ai bordi della strada.
Come potevo non aiutarlo? Come facevo ad andare a trovare mia mamma al cimitero se non l’avessi fatto? In fondo oramai quell’uomo era morto e niente lo poteva riportare in vita”.
Suonò il mio cellulare. Lo presi dalla tasca. “Stronza Chiamata” recitava il display.
Non rispondere, non rispondere, per carità, disse l’io saggio.
Risposi. L’io saggio non vinceva mai quando c’era di mezzo lei.
“Devo andare qualche giorno al mare. Potresti occuparti tu di Oreste mentre son via?”
Fra le tante cose che avevo supinamente accettato c’era stata anche quella di chiamare Oreste il gatto che non volevo nemmeno prendere. Io avrei adottato volentieri un cane.
“In ricordo della Grecia” , aveva detto. La vacanza in Grecia l’aveva fatta senza di me con due sue amiche pochi mesi prima che ci sposassimo. Un raro rigurgito di spirito di autodifesa mi aveva impedito di domandare ulteriori spiegazioni.
Era già assurdo che lei me chiedesse di tenerle il gatto, fu ancora più assurdo che io le dicessi di si.
“Una cosa che non avrei mai fatto per qualunque cifra mi avessero offerto, la feci per amore” così aveva detto il mimo d’oro.
Io se avessi un euro per tutte le fesserie che ho fatto per amore sarei ricco, pensai.
“Passai la buona parte della notte di sabato e la giornata di domenica ad aggiustare la macchina.. Quando la prese, nessuno avrebbe detto che era stata coinvolta in un incidente. Imposi una sola condizione; gli avrei liquidato la sua quota della carrozzeria che ci aveva lasciato nostro padre e lui avrebbe dovuto far avere, in qualche modo, i soldi ai parenti dell’uomo. Era un modo per tacitare la mia coscienza più della sua.
Non volli mai sapere nulla della vittima: il nome, l’età, se aveva famiglia, niente. Fortunatamente mi avevano detto che non era del Veneto e che si trovava da quelle parti solo perché era venuto in visita a degli amici. Ma mai lo dimenticai, come non dimenticherò mai il pomeriggio successivo quando arrivarono i carabinieri a chiedermi se fosse venuto qualcuno a portarmi un’auto con danni compatibili con l’incidente. Sapevo bene che non erano altro che indagini di routine, tre anni prima erano venuti per pormi la stessa domanda. Ma tre anni prima non avevo mentito. Quando se ne andarono, corsi in bagno a vomitare. Dopo la pausa pranzo non tornai in officina. Rimasi in casa e mi ubriacai per la prima volta.
Dopo, i rapporti con mio fratello mutarono, lui capì che in me qualcosa era cambiato. Prima aveva lavorato in un bar a Vicenza  poi si era trasferito in Liguria. Io ero rimasto a Schio nella carrozzeria che era stata di nostro padre. L’alcool mi aveva causato dei problemi, ma avevo frequentato gli alcolisti anonimi ed ero riuscito a tener il problema sotto controllo se non a sconfiggerlo del tutto. Arrivammo a non vederci quasi mai e a sentirci solo per le feste comandate, poi neanche per quelle.
Quasi sei anni dopo, mi arriva una strana telefonata. Una donna mi dice che lei e mio fratello si stanno per sposare. Sa che io e lui non ci frequentiamo e non siamo in buoni rapporti. Non sa perché e mio fratello non ha voluto dirle di più. Ma lei vorrebbe che il matrimonio fosse un occasione per ricominciare ad avere un rapporto. Per questo mi ha chiamato, senza che lui lo sapesse. Sarebbe stata una cerimonia intima e lei desiderava che io ci fossi. Mi sembrò una donna dolce e matura: mio fratello era stato fortunato. Pensai che forse potevamo metterci il passato alle spalle.”
Non potete immaginare quanto mi stesse antipatico Oreste, un persiano altezzoso e prepotente. A chi assomigliava, secondo voi? Non c’era dubbio che si prendesse gioco di me.
E avevo appena promesso di dargli da mangiare e pulirgli la cacca. Quanto ci avrebbe goduto. Mi avrebbe guardato di sguincio, come usava fare lui, e i suoi occhi avrebbe detto “Povero scemo, ti ha sempre fatto fare quello che voleva” .
Ed era vero; come quella volta che mi convinse a fare l’amore in tre. Io, lei e un amico, anche se, in verità, io più che altro guardai. La cosa che mi fece più male non fu osservare la loro perfomance, quanto scoprire poco dopo che era un bel po’ che si allenavano per conto loro.  
A volte l’amore ci rende stupidi, ciechi o forse se siamo stupidi e ciechi non dovremmo innamorarci mai.
Anche il mimo d’oro era stato cieco. Anche lui era stato tradito.
La moglie di mio fratello era ancora migliore di quanto avessi pensato. Poco meno di quarant’anni, una figlia di dieci. Un viso allegro e aperto sul quale ogni tanto calava uno ombra di tristezza, un’aria di robusta sicurezza del tutto prima di alterigia e prepotenza. Una donna come quelle di una volta, si sarebbe detto. Donne che reggevamo le sorti della casa e della famiglia, prendevano le decisioni importanti, donne che comandavano senza regnare. Proprio quella che ci voleva per mio fratello.
Mio fratello non fu sorpreso di vedermi. Pochi giorni prima della cerimonia, lei lo aveva informato. Un’altra prova della sua saggezza: niente teatrini alla De Filippi. Ma lo vidi preoccupato e teso per tutto il tempo. Dopo la cerimonia in comune, andammo in non più di una trentina al ristorante. Mio fratello volle che mi sedessi vicino a lui. Il più bel pranzo di nozze a cui abbia mai assistito. Leggero e commovente insieme.
Gli sposi dopo il pranzo partivano per una piccola crociera ai Caraibi. Io me ne tornavo a Schio. Ci salutammo e finalmente lo vidi sollevato. Dopo poco più di mezzora di viaggio mi accorsi che avevo dimenticato il soprabito che ignaro del clima piacevole della costiera ligure avevo portato con me. Mi dispiacque e tornai indietro. Quando arrivai al ristorante non c’era più nessuno. Presi il soprabito e stavo andando via quando vidi seduta al tavolo a fumarsi una sigaretta quella che mi era stata presentata come la migliore amica della sposa, che era seduta accanto a me durante il pranzo.
Aveva avuto un guasto alla sua auto e mi offrii di darle un passaggio. Accettò ben volentieri. Durante il tragitto fra le altre cose mi fece un ritratto molto carino di mio fratello e di come fosse stato importante nella vita della sua amica. Le aveva permesso di uscire da un periodo tremendo seguito alla morte del marito.
Arrivati sotto casa sua, mi invitò a salire per un ultimo bicchiere. Le sembrò sicuramente strano che rifiutassi, in fondo le avevo fatto una corte discreta per tutto il pranzo. Probabilmente dovette credere alla scusa che non mi sentivo bene, perché sudavo ed ero completamente fuori di me, distrutto e di nuovo perso. Avevo bisogno di bere, di attaccarmi alla bottiglia ma da solo.
Le avevo fatto delle domande precise per essere sicuro di non essermi sbagliato. Speravo in una strana e improbabile serie di coincidenze, ma le sue risposte era quelle che temevo ma non volevo.  
Non arrivai a Schio. Mi fermai in uno squallido albergo a Genova e ricomincia a bere.
Avevo deciso di ucciderlo. Avrei ucciso Oreste. Girai diversi ferramenta chiedendo del veleno per topi. A tutti chiedevo se poteva essere pericoloso per un  gatto. Buttai quelli che mi dissero, probabilmente mentendo, che i gatti non l’avrebbero mai assaggiato e mi tenni il prodotto sul quale il negoziante mi aveva invitato a star molto attento ad eventuali animali domestici.  Misi due o tre pillole di veleno in mezzo ai croccantini perché ne assumessero l’odore e potessero trarre in inganno quel antipatico di Oreste e aspettai di tornare la seconda volta. Lei l’avrebbe trovato morto al suo ritorno.
Non mi sentivo orgoglioso del mio progetto omicida, ma ero eccitato dal fatto che finalmente anch’io avrei modificato il corso della sua vita. Se avesse capito che ero stato io sarebbe stata la mia vendetta, altrimenti l’avrei anche potuta consolare.
La sera prima decisi di andare a ringraziare il mimo d’oro. Comprai una bottiglia di Ferrari che avremmo potuto scolarci insieme e un libro illustrato sulle più belle coste salentine per invogliarlo a venire a farsi un bagno con me. L’ultimo bagno prima dell’arrivo del generale autunno.
Bussai a casa ma nessuno mi aprì. Andai allora nel vicino locale notturno dove c’eravamo incontrati. Quando non lo vidi nemmeno lì, mi resi conto che in realtà non sapevo il suo nome. Chiesi del mimo d’oro alla barista che serviva in topless. Distratto dai suoi seni piccoli e perfettamente rotondi non sentì la domanda con cui aveva risposto alla mia informazione e fu costretta a ripetermela.
“Eri un suo amico?”.
“lo conoscevo, non bene ma lo conoscevo”.
“E’ morto ieri: stavolta ha esagerato con l’alcool, le pastiglie e il fumo”.
“Come è possibile?” dissi stupidamente,” L’ho visto solo Sabato scorso” .
Tornai alla macchina e iniziai a piangere. Era destino che quel volante si dovesse sempre bagnare delle mie lacrime.
Povero Mimo d’oro.
Ma si può ? Si può sposare la vedova dell’uomo che si è messo sotto con l’auto? Si può tenere per mano una bimba sapendo che le hai ucciso il babbo? Neanche la mamma lo avrebbe perdonato. Non potevo nemmeno dirglielo io, ma non potevo vederli più. Allora sono sparito e sono diventato il mimo d’oro. La verità che avrei dovuto gridare, l’ho nascosta, ma mi sono nascosto con lei”
E alla fine quella realtà così pesante l’ha triturato.
E forse non era stato un incidente, come non era un caso che mi avesse raccontato tutta la storia il giorno prima di morire.
I croccantini erano sul sedile posteriore con le pillole di veleno che non avevo utilizzato. Buttai tutto in un cassonetto.
Scrissi un sms alla stronza: “Devo partire urgentemente, non posso pensare ad Oreste”.
E partii verso il mare.
Arrivai a Tricase, dove passavo la villeggiatura estiva quando ero piccolo.
Il telefono continuava a suonare e il display a recitare, “Stronza chiamata”.
Parcheggiai, scesi e mi avvicinai agli scogli col telefono che vibrava nella mia mano.
Sollevai il piede sinistro, piegai la spalla destra lievemente all’indietro e feci su un lancio degno del miglior lanciatore della Major league di baseball.
Sicuramente stava ancora suonando quando affondò nell’acqua.

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