Pizza Mondiali e Maturità

Sera. Solo la luce debole di un lampione di strada illuminava la stanza.
Appena entrato, si era buttato sul divano, tolto le scarpe, e aveva pesantemente abbandonato la testa all’indietro. Neanche casa sua gli dava pace. Aveva sperato che entrando in casa l’angoscia si sarebbe placata. Anzi forse era peggio, gli sembrava che le sue cose si girassero dall’altra parte quando le guardava.   
Si sforzava di rimane immobile: se si fosse alzato avrebbe spaccato tutto.
Forse parlare con qualcuno gli avrebbe fatto bene, ma si vergognava come un pedofilo. Tanto era solo questione di tempo e ne avrebbero parlato tutti.
Per ora gli toccava ascoltare la voce paciosa di Jerry Scotti col suo quiz che il professor Di Natale del piano di sotto sparava a mille visto che era duro di orecchi così quanto era buono di cuore.
Prese il telefono. Mike rispose quasi subito.
“Hi Mike. I’m Calò. Listen, I’ve changed my mind. I’ll accept your offer. If you want I can be at London even tomorrow. Actually I’ll be there tomorrow.”
“Really? Oh, it’s fantastic. I knew it. It’s a great opportunity. We sign the contract and we can leave for Nairobi as soon as possible”.
“As soon as possible. I’ll call you soon after my lending in London”.
In realtà non aveva mai pensato di accettare. Avrebbe dovuto stare tre anni senza tornare a Roma. Erano tanti soldi, ma prima non ci aveva mai pensato veramente. Stasera avrebbe accettato anche di andare a cercare petrolio sulla luna, gratis.
La furia gli era passata: l’idea della lunga fuga lo aveva placato. Oramai scappare per lui era diventata un’abitudine. Il dolore che gli lacerava il cuore però era rimasto lì. Allora aprì una bottiglia di Lame del Tenente, un vino salentino denso e deciso. Si sedette  e iniziò a bere, proprio come quella volta. Accese il pc e si prenotò il primo volo per Londra e visto che c’era si cancellò da facebook. Non si fosse mai iscritto.
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“Zio, bisogna che ti fai facebook anche tu. A parte che puoi vedere tutte le foto che posto, poi sai quello che faccio. Conosci le mia amiche che subito ti chiederanno l’amicizia, e magari puoi vedere anche il profilo di Luca. Così dirai alla mamma che non è brutto come dice lei.”
Come era bello vedere la faccia allegra di Sara sullo schermo del computer via Skype. I suoi occhi erano ancora più azzurri che al naturale. Il loro colore era certo un regalo del padre, ma per il resto Sara era una Calò fatta e finita. Il viso elegantemente ovale impreziosito da con occhi grandi e pieni d’espressione; ma la bocca, con labbra carnose e perfettamente disegnate che quando si aprivano in un sorriso creavano delle fossette tirabaci al centro delle guance, la bocca era il marchio di fabbrica delle donne Calò.
“Ma dai, Sara, è una roba da giovani. Poi mi ci vedi a me che scrivo: oggi mi sono svegliato allegro, esco e mi faccio il bagno con un tuffo dalla piattaforma”
“Ma guarda che se l’è fatto anche papà. E dice che gli serve anche per il lavoro, per rimanere in contatto coi colleghi e per comunicare con gli alunni.”
Lavoro, ma quale lavoro, se tuo padre fa l’insegnante? Avrebbe voluto dirgli, ma si mangiò la lingua.
Era da una vita in competizione con Simone. Da quel sabato di tanti anni fa quando la sorella lo portò al mare a casa al mare, a porto Santo Stefano. Non era il primo ragazzo di Gabriella, ma presto capì che gli altri non erano stati niente. E che da quel momento sua sorella, non sarebbe più stata solo sua. Ora gli invidiava Sara, anche più di Gabriella. Lui si era preso le donne più importanti della sua vita e avrebbe pure dovuto essergli simpatico?
Suo cognato, poi, non sapeva cosa significa lavorare veramente. Lui si che sgobbava; tre mesi su di una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano indiano con un caldo che ti sfiniva quando non era la stagione delle piogge. Per non parlare di quando arrivavano gli uragani. Un mese a Roma e poi di nuovo tre mesi in mezzo al mare.
Faceva questa vita da 15 anni e anche se non lo avrebbe ammesso con nessuno, era stufo. Diceva a tutti che questa era la vita che aveva sempre sognato. Le piattaforme lo avevano tenuto lontano dalla routine di un matrimonio e di un lavoro in ufficio.
“Voi non sapete quanta libertà mi ha regalato stare 9 mesi all’anno chiuso in una piattaforma in mezzo all’oceano” andava dicendo ai suoi, pochi, amici romani. Loro spesso ci credevano e magari lo invidiavano pure. Lui aveva smesso di crederci da tanto.
Gli avevano appena proposto di dirigere una piattaforma di nuova generazione in fase i costruzione al largo delle coste keniote. Un monte di soldi e di responsabilità, ma significava anche non poter tornare a Roma mai almeno per i primi tre-quattro anni. E lui già era stanco di questa vita. Aveva fatto finta di prendersi qualche settimana per pensarci, ma già sapeva che avrebbe rifiutato.
Così decise di farsi un account su facebook. Ci avrebbe postato le foto più belle e le canzoni più cool: così poteva stracciare Simone anche sulla rete.
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Per una volta, l’aereo atterrò in perfetto orario. Come sempre Fiumicino gli sembrò bellissimo eppure lui ne aveva visti di aeroporti in giro per il mondo, parecchi molto più efficienti, accoglienti e attrezzati. Ma quell’aeroporto significava casa.
Si sentiva carico e lievemente eccitato, come in attesa di un evento straordinario, come se stesse per ricevere una notizia e fosse sicuro che sarebbe stata ottima.
Se era stato contento di arrivare a Fiumicino, fu felice di entrare in casa. Aprire la porta appena tornato dai tre mesi in mezzo al mare comportava una specie di scarica di piacere erotico. Infilare la chiave nella toppa, girarla, spalancare l’uscio, riconoscere l’odore umido e sensuale di quelle stanze, penetrare con decisione nel salone, togliersi le scarpe per sentire il suo parquet accarezzargli i piedi, capire che le sue cose lo stavano aspettando con trepidazione, arrivare alla porta finestra, alzare la persiana, farsi abbracciare dalla luce erano un crescendo di sensazioni che culminava con un orgasmo puro quando usciva fuori e vedeva i tetti di Roma arrossati dal sole al tramonto.
La serata del suo arrivo era tutta e solo dedicata alla sua città. Dopo la doccia, usciva e passava per quei quattro o cinque posti, fuori dai circoli del turismo di massa, che conosceva a memoria e che voleva salutare rassicurandosi che fossero rimasti sempre uguali. Trascurava la Roma di massa, dove andavano gli altri; quelle strade erano invase oramai dalle stesse vetrine che si trovavano a Parigi o a Bangkok. Quanto odiava la globalizzazione dei consumi, proprio lui che il più globalizzato dei lavoratori.
La prima serata romana finiva immancabilmente alla trattoria Zio Gipo a Trastevere. La scimmia da amatriciana veniva placata con una porzione e mezza abbondante che gli serviva oramai in automatico Gipo in persona, un curioso milanese che cinquant’anni fa si era trasferito a Roma per amore e aveva imparato a cucinare romano meglio della sora Lella. Il secondo variava a seconda della stagione, dei consigli di Gipo, dell’estro del momento: saltimbocca, cotolette d’agnello, fritto alla romana.
Quella sera, una splendida sera di maggio, era in vena più che mai e si sparò una bella trippa, alla faccia del colesterolo e dei trigliceridi. Non beveva vino, mai più.
Tornato a casa si sedette un po’ al pc prima di prendersi due dita di grappa di Teroldego e mettersi davanti alla tv e lasciarsi addormentare piano.
“Piero Prosperi vuole stringere amicizia con te su facebook” recitava il messaggio.
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Estate del 82, estate della maturità e dei mondiali in Spagna. Un gruppo di ragazzi straordinario, come tutte le comitive e tutti i diciottenni. Lui e Anna, la sua ragazza, Piero e Celeste, altra coppia inossidabile e Massimo detto lo sciupa femmine, perché non se ne lasciava scappare una e nessuna, pare, si faceva scappare lui. Ebri della promozione e con ancora negli occhi e nelle orecchie l’urlo di Tardelli, organizzarono un viaggio in Grecia. Partirono solo in quattro, perché una vecchia zia di Celeste pensò bene di morire il giorno prima della partenza e lei alla fine rinunciò.
Avevano preso in affitto per poche lire una casa a Paxos un’isola ionica pochi chilometri a Sud di Corfù. Quindici giorni di solo mare, sole, mangiare e bere. Divertimenti pochi ma tanto sarebbe dovuti essere due coppie e Massimo che si voleva prendere un paio di settimane di sabbatico dalle donne; andava dicendo che Paxos sarebbe stata per lui quella che Singapore era stata per Vecchioni nella canzone dei Nuovi Angeli.
Andavano spesso a pesca subacquea, anche se lui era l’unico ad avere la fissa. Era anche l’unico che ci sapeva fare. Col pesce che prendeva mangiavano tutte le sere gratis al miglior ristorante dell’isola  e quando andava bene si portavano anche qualche dracma a casa.
Un pescatore di Paxos, Christos, li accompagnava nelle secche di fronte all’isola dove si poteva trovare pesce in abbondanza.
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Aveva subito accettato l’amicizia e si era fiondato sulla sua pagina. Era secoli che non lo vedeva ed era curioso di sapere come se la passasse.
Una moglie, carina, anzi proprio bella. Ovviamente non era Celeste, ma questo lo sapeva già. La loro storia non era durata poi molto più a lungo della sua. Due figli maschi che giocavano a pallone. Un mestiere che gli si addiceva: l’informatore farmaceutico. Aveva la parlantina sciolta, la faccia simpatica e un aria da caciarone di classe. Chissà quanti medici e dottoresse riusciva a convincere che i suoi prodotti erano panacee per tutte le malattie possibili. E poi aveva quella spregiudicatezza e quel relativismo morale che per far affari coi medici è fondamentale.
Postò due video trovati in fretta e furia su youtube e seguendo le indicazioni di Sara riuscì a taggare Piero Prosperi. Il primo era di Cocciante: Celeste Nostalgia. Era una delle hit di quegli anni: ma principalmente era usata dagli amici per canzonare Piero quando lo scoprirono innamorato di Celeste, appunto. Era quasi sempre Massimo che iniziava a fischiarla, prima a basso volume e poi sempre più forte trascinando gli altri. E Piero allora partiva coi moccoli e le grida, almeno fino al momento in cui scoprì di essere ricambiato. Da quel momento sorrideva compiaciuto quando qualcuno iniziava a cantarla: e infatti di lì a poco i suoi amici, perso ogni gusto, smisero di farlo.
Invece Hard to say I’m sorry dei Chicago era stata la canzone di quell’anno. A lui i Chicago non facevano impazzire e Cuccurucù Paloma di Battiato gli piaceva di più. Ma ricordava benissimo che appena entravano nella macchina di Piero, lui infilava la cassetta dei Chicago di cui si ricordava perfettamente il colore.
“Come stai, brutta canaglia?” gli scrisse in bacheca.
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Di quel giorno lui ricorda ogni particolare: era andato a pesca da solo, ma arrivato a metà strada dalla secca, quando stava cominciando ad indossare la muta si ricordò che il giorno prima aveva perso il carichino  scivolatogli in acqua mentre ritornavano a riva. Il carichino è un aggeggio di plastica nera piccolo e insignificante ma assolutamente necessario per caricare il fucile subacqueo.
Cercò nella sacca da sub il sacchetto dove teneva alcuni carichini di riserva. Ma non li trovò, evidentemente erano nell’attrezzatura che aveva lasciato a terra.
Da buon pescatore legato alle piccole superstizioni, fece buon viso a cattivo giuoco e se ne uscì dicendosi che non era cosa di pescare quel giorno, il destino era stato chiaro. Ignorava ancora che il destino era stato anche cinico e baro, come prammatica prevede.
Arrivati al molo, un signore francese che conosceva gli propose un’uscita in barca a vela: c’era un bel vento costante con un mare con delle belle onde lunghe che invitava a prendere il largo con una deriva.
Rifiutò, avrebbe invece raggiunto Anna e avrebbero fatto il bagno insieme.
E si diresse verso casa per lasciare la pesante sacca con l’attrezzatura.
L’appartamento che avevano preso in affitto era in cima ad una collinetta con una splendida vista sul porticciolo. Per arrivarci, non seguì il sentiero di pietrisco che l’avrebbe condotto alla porta d’ingresso che dava sulla piccola stanza da pranzo da cui partiva una scaletta interna che permetteva di raggiungere le due stanze da letto del piano superiore. Prese invece un sentiero di terra, ripido e tortuoso ma più breve che arrivava al retro della casa dove c’era una la terza stanza da letto, più piccolina delle altre due perché ricavata nel seminterrato. Era la camera che avevano lasciato a Massimo che era da solo. Volendo si poteva entrare in casa di lì o si potevano fare ancora pochi metri di salita, girare intorno alla casa ed entrare dall’ingresso principale.
La prima cosa che vide furono i capelli che riconobbe subito. Si chiese cosa stesse facendo in quella stanza. Stava per chiamarla, quando dopo aver fatto un passo in più ne poté vedere la testa per intero. Il viso era contratto, gli occhi chiusi, e si muoveva ritmicamente. Ora era alla stessa altezza dei suoi occhi chiusi e purtroppo poteva anche sentire i suoi versi. Si fermò e gli parve che si fosse fermato anche il suo cuore e con questo tutto l’universo mondo. Era a quattro zampe sul letto e un uomo di cui lui non poté vedere il viso per via della persiana abbassata a metà la stava prendendo da dietro. La sua Anna stava scopando e lo faceva con gran gusto a quanto sembrava. Non riusciva a muoversi, era ipnotizzato dal quel viso, da quei capelli ricci che ondeggiavano su e giù. Il ritmo stava aumentando e i suoi gemiti erano più forti. Brutto stronzo, altro che sabbatico.
In quel momento lei aprì gli occhi e lo vide. Lanciò un grido.
Nei giorni che seguirono lui si era continuamente chiesto se quell’urlo fosse dovuto al piacere o alla vergogna. Nei trent’anni successivi avrebbe scoperto che la vergogna amplifica il piacere.
Se ne scappò via.
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“Finalmente anche tu nella nostra tribù di Facebook.”
Il messaggio di Piero in chat gli arrivò mentre curiosava ancora fra le sue foto e i suoi vecchi post. Si sentì quasi come se fosse stato sorpreso a spiare di nascosto nei cassetti della camera dell’amico. Doveva chiedere a Sara se era possibile che Piero l’avesse veramente visto mentre girellava curioso nella sua vita.
“Ciao Piero, come stai?”
“’Na bellezza. E tu? Da che parte di Roma abiti, che se sei vicino vengo e ci andiamo a bere una birra insieme”
“Al momento sarebbe difficile sono in mezzo al mare, nell’oceano indiano”, mentì spudoratamente, ma non era ancora pronto a rivedere Piero, aveva ancora paura di visitare quegli anni.
“Vai ancora a pesca?”
“Oggi come oggi pesco solo fregature. Sto lavorando”.
E gli raccontò del suo lavoro, tanto e della sua vita, poco.
“Allora quando torni a Roma, ci vediamo, promesso?” gli disse salutandolo.
“Sicuramente” rispose. Ma non ne era certo.
“A presto, allora”
“A presto”.
“A proposito, ti volevo dire che c’è un gruppo. Pizza, mondiale e maturità: noi della V C. Con tutti i compagni di scuola, almeno quelli che sono su facebook. Iscriviti.”
“Ok, ora vedo”
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Piero l’aveva trovato solo un giorno e mezzo dopo, quando stavano per dare l’allarme anche in Italia. Tutta l’isola aveva saputo la storia dell’italiano che era scappato e magari si era tolto la vita.
A lui di uccidersi non era mai passato dalla testa. Aveva, questo sì, avuto voglia di uccidere, ma anche questa gli era ben presto passata. Voleva starsene per conto suo, da solo cullarsi il suo dolore, curarsi con la medicina del risentimento e dell’autocommiserazione.
All’inizio si era steso sul fondo di una piccola barchetta nel porto. Sotto una tendina che lo proteggeva dal sole e dagli sguardi dei curiosi, si lasciava dondolare dal mare che compativa le sue pene e scioglieva piano il suo odio. Lì era stato fino all’alba del giorno dopo, quando il pescatore proprietario della barchina lo svegliò. Era un uomo strano con corpo da vecchio e un viso da giovane, lunghi capelli neri che gli arrivano alle spalle e due occhi dolci e vivacissimi. Il viso era disteso e privo di rughe, il corpo magro, rinsecchito, leggermente piegato in avanti e segnato da tante cicatrici. La voce era profonda, forse troppo per quel corpo esile, il suo italiano fatto di pochi termini ma corretti.
E fu anche strano che non gli chiese niente, non volle sapere nulla ma gli disse “Se vuoi stare solo, conosco posto buono per te”.
Lui fece un cenno d’assenso, il pescatore liberò la cima, si mise a remi e partirono. Quando furono fuori del porto, si fermò, apri una sacca, ne cacciò fuori un pezzo di pane e uno di formaggio e li divise con lui. Poi prese una bottiglia di vino denso e scuro che colorava il vetro. Lui tentò di rifiutare il vino, dicendo d’essere astemio.
“Astemio, cosa essere astemio? Bevi, non vino questo, questo medicina per te”.
Bevve un sorso, poi bevve ancora e poi ancora di nuovo. E fu davvero salutare.
Non si ricorda quando il pescatore si rimise ai remi né quando arrivarono e scese dalla barca. L’ultimo ricordo è il vino denso che gli riempiva la bocca e anestetizzava il dolore.
Piero lo aveva trovato in una grotta naturale di una piccola caletta sconosciuta i più.
Nel vederlo, gli si era fatto incontro abbracciandolo stretto.
“Portami via” gli disse  “Non voglio vedere nessuno né quella puttana né quel bastardo”.
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Pizza, mondiali e maturità. In realtà, il loro motto, tutto maschile, era “fica, mondiali e maturità”. E specificavano, “nell’ordine”. Anche se qualcuno, pochi esaltati, era disposto ad mettere i mondiali prima della fica.
Ma avevano usato una versione più soft e unisex.
15 membri del gruppo: mancavano in pochi. La Marinella, la più intelligente e libera della classe, era sicuro che si sarebbe tenuta fuori dalla nuova schiavitù dei social network, e infatti non c’era. Poi ne saranno mancati degli altri, perché in classe erano una ventina, ma non gli venivano in mente.
Anna non ci poteva essere, visto che era un anno più piccola. Ma c’era Massimo. Quanto l’aveva odiato: quanto l’odiava ancora, trent’anni dopo.
L’odiava non tanto perché s’era scopato la sua ragazza: in fondo visto che lei c’era ampiamente stata, forse, forse gli aveva anche fatto un piacere. Ma l’aveva condannato al cinismo, tradendolo. Aveva ucciso quel ragazzo aperto, cordiale, fiducioso in tutti e l’aveva trasformato in una persona aggressiva e diffidente: gli aveva strappato l’illusione che il mondo fosse innocente. D’allora non scendeva in strada se non indossava la sua armatura.
E alla fine si trovò sul suo account, quasi senza volerlo. Non gli aveva chiesto l’amicizia, e non gliela comunque avrebbe data se lui avesse avuto il coraggio di chiederla. Ma Massimo aveva settato il suo profilo in modo che tutti i membri del gruppo PMM lo potessero vedere.
Seguendo un infantile desiderio, sperava di scoprirlo solo, fallito e infelice. Ma ovviamente non fu così. Era un professore universitario di Storia alla Sapienza. Sposato con Giulia, una donna non bellissima, ma dal viso intelligente e con un corpo ancora discreto almeno se erano veritiere le foto sul suo profilo. Tre figli, due femmine e un maschio, un mucchio di amici e una collaborazione con blog di politica contemporanea di cui aveva sentito parlare.
La vita sembrava essere stata più che generosa con lui.
Sorrise all’idea che Massimo campava con la storia e lui aveva vissuto una storia che non lo faceva campare.
*****
Piero era sulla barca di Christos che si era offerto di aiutarli a cercarlo.
“Voglio tornare a casa, senza vederli, aiutami”.
Senza fare troppe domande, Piero lo caricò sulla barca e invece di raggiungere il porto turistico vicino alla casa presa in affitto, andarono al porticciolo dei pescatori e Christos lo piazzò in casa sua per farlo riposare e per dargli da mangiare e da bere.
Voleva ringraziare il pescatore che lo aveva portato alla grotta e lo aveva curato con il vino. Lo descrisse a Christos perché lo portasse da lui. Christos si fece ripetere la descrizione e ogni volta faceva delle domande sempre più particolari sui modi di fare e sull’aspetto del pescatore che lo aveva aiutato.
Tanto che lui rimase stupito quando il pescatore disse, non senza mostrare imbarazzo:
“Non conosco nessuno così, non so chi sia.”
Piero organizzò tutto: prese i suoi bagagli dalla casa che avevano preso in affitto, cambiò la data al suo biglietto, lo accompagnò al traghetto. Gli aveva chiesto ripetutamente se volesse essere accompagnato, ma lui rifiutò. Voleva viaggiare da solo, così, forse, poteva dimenticare ciò che era avvenuto.
Nel salutarlo, Piero gli chiese:
“Ma cosa hai raccontato a Christos per turbarlo tanto?”
“Niente di particolare. E lui che mi è parso strano, io volevo solo mi conducesse dall’uomo che mi aveva aiutato”.
 “Christos dice che questo tizio è morto dieci anni fa”.
******
 “Mi scusi signora, ma ha mica visto un libro che ho dimenticato su questa panchina”.
La voce era leggermente affannata, come di uno reduce da una corsa.
Giulia alzò gli occhi e subito arrossì.
Era stata sorpresa a leggere la dedica.
“Non so se mi spaventa di più l’idea di perderti,
o quella di perdermi in te. Per sempre”
“Oh, mi scusi. Era qui sulla panchina. L’ho preso istintivamente”.
“Non si preoccupi. L’importante è che l’ho ritrovato.”
Senza chiedere permesso si sedette alla panchina.
“Mi scusi se approfitto, ma ho fatto una corsa, appena mi sono accorto di lasciato qui.” 
“Per me questo libro è importante e non voglio perderlo”.
Giulia gli porse il libro. Era “Di cosa parliamo quando parliamo di amore” e disse.
“Anche a me piace molto Carver, anche se questo non l’ho ancora letto”
“E’ il mio scrittore preferito: i suoi racconti sono asciutti, taglienti. Sono carta vetrata che leviga la vita quotidiana. Racconta in modo mirabile vicende banali di persone mediocri, rendendole storie straordinarie.”
Poi ridacchiò e continuò: “Ho usato troppi aggettivi, Carver non scriverebbe mai un dialogo così”
Sorrise anche lei.
“E poi sono legato proprio al libro, al volume”.
“La capisco. La persona che glielo ha regalato deve volerle molto bene”.
Lui la guardò con fare interrogativo.
“Le chiedo scusa ma ho letto la dedica, volevo vedere se c’era un nome, così magari da restituire il libro”
“Io. Io le volevo molto bene. Che dico, l’amavo da morire. L’ho scritta io la dedica. Quando mi ha lasciato, cinque mesi fa poco prima che ci sposassimo, non ho voluto niente indietro. Le ho chiesto solo di ridarmi il libro con la dedica”
“Pensi che non si ricordava nemmeno dove l’avesse messo”.
“Si dice che un diamante è per sempre; sbagliato. Una parola, una parola scritta è per sempre”.
La guardò negli occhi. Il suo viso era più bello visto da vicino, le foto non le rendevano giustizia. Lei rispose al suo sguardo senza abbassare gli occhi.
Quasi vergognandosi di essersi aperto troppo, saluto frettolosamente e andò via, senza presentarsi.
Voleva che lei pensasse a lui con curiosità e mistero.
Fece passare un paio di giorni e tornò.
Tornò con un sorriso e un pacchettino in  mano. Sapeva di trovarla alla solita panchina.
Lo sguardo che lei gli regalò quando lo vide gli confermò che il piano che aveva studiato con cura funzionava a meraviglia: il pesce stava abboccando.
“Mi sono permesso di comprarti una copia del libro dell'altra volta e speravo proprio di ritrovarti qui.”
Le disse passando direttamente al tu.
Non era speranza era certezza, l’aveva osservata bene nei giorni precedenti. Così come consultando il suo account su facebook aveva scoperto i suoi gusti letterari.
Iniziarono a parlare, di letteratura, di vita e di loro stessi. 
Era un bell’uomo, consapevole del fascino che esercitava sulle donne. E poi ci sapeva fare.
Benché fosse profondamente diffidente nei confronti delle donne, o forse proprio per questo, le conosceva bene. Sapeva parlar loro e ancora di più le sapeva ascoltare.
Amava le donne così quanto odiava l’amore.
Fu più facile di quanto avesse pensato.
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La portava sempre allo stesso albergo, dove portava tutte le sue conquiste, almeno quelle che non avevano una casa dove far l’amore. Nessuna era mai venuta a casa sua, con nessuna aveva mai passato la notte.
Aveva filmato di nascosto buona parte dei suoi incontri con lei.
La faceva parlare del matrimonio e della vita sessuale con suo marito. La spingeva a fare paragoni dai quali lui usciva vincente e Massimo umiliato. Le faceva dire che pensava a lui e al suo cazzo mentre apparecchiava la tavola o aiutava i figli a fare i compiti o mentre faceva malvolentieri l’amore con il marito.
Il suo piano era quello di mettere i filmati in rete nei siti di video hard amatoriale. Di lì si sarebbero facilmente diffusi e prima o poi qualcuno avrebbe riconosciuto la professoressa di matematica del liceo Pasteur o meglio ancora la moglie di un noto professore della Sapienza. E avrebbe avuto la sua vendetta. E avrebbe trovato pace. Almeno così pensava.
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“Sai ieri a scuola è successo un piccolo dramma. Due ragazzi si sono presi a botte”.
Dopo l’amore siamo tutti diversi. C’è chi si addormenta, chi si fuma la classica sigaretta. Una donna con cui aveva passato un mese denso di incontri, aveva l’abitudine di mangiare appena fatto l’amore. Si portava sempre dei biscotti da mangiare nuda a letto.
“L’antica e vecchia questione del triangolo: lui aveva sorpreso la sua ragazza con il migliore amico”.
Giulia parlava, parlava, parlava. Gli raccontava episodi della sua giovinezza così come episodi di vita familiare o dei suoi studenti.
“Praticamente non abbiamo fatto lezione: fortuna che nelle ultime due ore avevo compito in classe nella terza. Altrimenti avrei dovuto gestire io anche il dopo scazzottata: sono il docente referente della classe.” 
Lui rispondeva spesso a monosillabi inserendo una sorta di pilota automatico della conversazione che gli permetteva di rimanere nel suo mondo e di pensare alle sue cose. Adesso poi era del tutto indifferente. Aveva deciso di finirla lì. La sera prima aveva caricato in rete la maggior parte dei video, nei quali aveva oscurato il suo viso mentre quello di lei era ben in evidenza. Tanto lui fra 10 giorni sarebbe partito. Ma avrebbe seguito tutto sul pc. Lo scandalo sarebbe stato grande.
Ma all’improvviso il suo radar d’emergenza captò qualcosa che lo interessò: le parole Massimo e Grecia. Si sintonizzò immediatamente sul racconto di Giulia.
“Ma la storia di Massimo era molto più complessa e romantica. Non riuscì mai a dirglielo al suo amico. Lui non lo volle mai incontrare. Poi gli scrisse una lettera, ma non ha risposto.”
“Comunque al mio alunno è saltato un dente e vuole chiedere i danni”.
“Scusa cosa hai detto?”, chiese interessato mentre il cuore gli era saltato in gola.
Si era messo a sedere sul letto e il suo viso era teso.
“Ti stavo dicendo che i dentisti ci guadagnano anche dai conflitti amorosi adolescenziali.”
“Che cazzo me ne fotte dei dentisti, raccontami di tuo marito e della Grecia”.
“Che te ne importa? E’ una storia di trent’anni fa.”
“Ma non se l’era scopata Massimo, la ragazza del suo amico? “
“No”.
“Allora era Piero!”
Le aveva preso le spalle fra le mani e la stava strattonando.
“Allora è stato Piero? Dimmelo cazzo.”
La lasciò subito quando vide il suo sguardo stranito e perplesso.
“Piero si, Piero quel gran figlio di buona mamma. Io non lo sopporto. Lo sai che ci provò anche con me poco tempo dopo che mi ci eravamo messi insieme. Massimo comunque ha praticamente smesso di frequentarlo: non gli ha mai perdonato di non aver confessato la verità al loro amico.”
Poi lo guardò dritto negli occhi e aggiunse, “Ma tu come sapevi che si chiamava Piero?”
Lui si stava già rivestendo.
Si ricordava delle lettera che gli era arrivata quasi un mese dopo. L’aveva tenuta sul tavolo indeciso se leggerla per più di dieci giorni. Poi l’aveva buttata nel camino senza aprirla.
Prima di aprire la porta si voltò verso Giulia. La vide sdraiata sul letto nuda ed inerme con un’espressione confusa e spaventata.
“Perdonatemi”, penso, ma non disse nulla.
Lei sbigottita da suo comportamento non riusciva a capire. Vide il viso di lui attraversato da a ruga di profondo dolore e poi i suoi occhi. Le lacrime che gli non riusciva a rimandare indietro li rendevano ancora più verdi e vivi. Quegli occhi le avevano fatto fare cose che mai avrebbe immaginato di fare, quegli occhi che gli avevano fatto dire cose che mai aveva detto a Massimo e che credeva che non avrebbe detto mai a nessuno. Quegli occhi che ora amava disperatamente.
Lo vide andar via e ancora non capiva perché. Ma sapeva che non sarebbe tornato. E allora pianse anche lei.

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