SDAT

La vita è un labirinto dove perde chi esce per primo.
Marsilia ha lo sguardo vuoto. All'improvviso si anima e racconta di quella volta che un bombardamento la sorprese a Livorno. Si salvò solo perché un soldato sconosciuto le si buttò sopra coprendola. Gli dette uno schiaffo, Marsilia, quando le bombe smisero di cadere: il soldato aveva messo le mani dove non doveva. Non rispose al primo schiaffo e nemmeno al secondo e le grida non lo smossero. Era morto così, con la mano fra le cosce di Marsilia.
La vita è un labirinto dove vince chi perde la strada senza smarrire se stesso.
Il suo sguardo si è fatto assente di nuovo.
“A cosa pensa, Marsilia”
“A niente, mica si può pensare sempre a qualcosa” e se ne va.
Fa solo mezzo giro del lungo tavolo che è al centro della sala. Sistema con cura il tappeto che vi è sopra e poi finisce il periplo e torna verso di me.
Mi saluta come se mi avesse appena visto e con una aria cospiratoria, mi chiede.
“Mi dice come si fa ad uscire da questo posto? Quelle non mi fanno andar via” e indica le suore che vigilano la grande porta che dà sul giardino.
“Fuori c’è mio figlio che m’aspetta, sarà in pensiero. Ieri so’ uscita e non so’ tornata a casa. Starà cercandomi per tutta Poggibonsi”
“Signora Marsilia, mi dispiace, non so come si esce.”
“Nemmeno lei lo sa come s’esce? Però, la facevo più in gamba…”
“Sa che facciamo? S’aspetta che le suore vadano a dormire, ci si vede qui e poi si scappa insieme”
La vita è un labirinto: si cerca continuamente l’uscita ma quando la troviamo è sempre troppo presto.
Ada grida e lancia moccoli, continuamente. Bestemmia e s’arrabbia con Dio e si innervosisce che lui non le risponda.
la mamma l’era maiala e il babbo becco allora giù botte col bastone queste donne tutte di merda son sporche e lo picchiarono fino a fargli uscire tutte le budella da fuori l’eran puttane tutte
Sta quasi sempre in una stanza da sola in compagnia delle sue stesse grida. Racconta storie confuse di amore, morte, violenza.
Come se ricordi di vicende drammatiche venissero prepotentemente a galla nella sua mente e fosse costretta a farli uscire fuori.
Appena mi vede, smette e si fa muta. Sono segreti che non devono essere rivelati.
Vorrei conoscere la sua storia. Vorrei sapere se c’è del vero nei suoi racconti o se il dramma è avvenuto tutto dentro la sua mente.
Vorrei conoscere la vita che ha fatto; da giovane deve essere stata una bella donna. Vorrei sapere chi è la splendida ragazza trentenne, che riesce a nuotare dolce e affettuosa in quel mare di rabbiose bestemmie e che la chiama nonna. E le assomiglia come una goccia d’acqua assomiglia ad un’altra goccia.
Nessun altro parente ho visto mai. Forse neanche lei esiste ed è solo un ologramma dell’Ada del passato.
E anch’io forse mi sto perdendo, ma vorrei mi prendesse per mano e mi portasse a vedere il film della vita di sua nonna e lei fosse la mia personale voce narrante fuori campo e ci fossimo solo noi nella sala all'aperto e lo schermo fosse sotto un cielo stellato in una sera d’estate accarezzata da una fresca brezza. E vorrei ci baciassimo solo dopo la parola FINE.
La vita è un labirinto e usiamo le nostre lacrime per segnare la strada: se qualcuno le asciuga, ci perdiamo.
A Beppino son sempre piaciute le donne. Ma la cosa non è mai stata reciproca, almeno finora. Poche esperienze molte delle quali con professioniste e una moglie noiosa e troppo bigotta per farlo felice. E ora che il sesso è l’ultimo dei suoi problemi, ora che gli tocca continuamente mettere in ordine tutto, dalle sedie ai tavoli, in questo accidenti di posto perché gli altri mettono sempre tutto a casaccio, quella donna lo chiama continuamente. Lo chiama senza dire mai il suo nome.
“Vieni, vieni” gli dice dall’altra parte della stanza. E fa segno con la mano.
Che se una volta, una sola santissima volta, l’avesse chiamato Beppino, allora si che l’avrebbe presa con sé per il resto della sua vita.
 “Vieni, vieni” quando la portano a tavola.
Una amico una volta gli disse che l’uomo che si fa trovare non è mai veramente amato. “In amor vince chi fugge, Beppino mio” ripeteva il Duccio Guerrieri che di donne ne aveva sempre avute più di quante se ne potesse permettere.
Lui non era mai riuscito a fuggire, erano sempre fuggite prima loro. Anche la moglie se n’era andata prima di lui e l’aveva lasciato solo come un cane, con un figlio che non lo veniva mai a trovare e una figlia che s’era andata a vivere a Messina, pensa un po’.
E l’aveva lasciato con la testa confusa che a volte non si ricordava più nemmeno qual’era bene la differenza fra maschi e femmine. L’amore l’aveva studiato poco e praticato meno e comunque adesso l’aveva bello e dimenticato.
“Vieni, vieni”. Le ripeteva lei.
“Mo’ vengo. Più tardi, ho da fare adesso”. Duccio sarebbe stato orgoglioso di lui.
“Devo sistemare tutte queste seggiole. Mannaggia a chi le sposta sempre”.
E vacci, cazzo, penso io. Falla contenta. Che questo solo l’è rimasto.
Osservo la scena, su l’uscio della porta del salone dove son tutti. Mi son fermato perché ho sentito la sua voce che chiamava. Non sono entrato indossando il solito sorriso d’ordinanza e recitando il saluto più caloroso che riesca ad interpretare. Mi son lasciato li, a spiare, non visto, la sua nuova vita.
La vita è un labirinto: non aiuta osservare la fatica di vivere degli altri ma non smettiamo di fare l’errore di aiutarli.
“Gesù, Giuseppe e Maria, ti proteggano sempre”. Sembra un deodorante automatico la Rosina. Appena transiti sufficientemente vicino a lei, emette il suo augurio di tutela divina.
“Finchè c’è la fede c’è tutto” continua poi come a giustificare la ragione del suo provvidenziale intervento.
Buona e dolce la Rosina, ma nessuno le fa mai compagnia. Dove saranno i parenti che magari si son già spartiti la sua eredità, perché si fanno pregare per venire a sentirla pregare. E allora ogni tanto parla con me, quando riesce a essere lucida a sufficienza e si emancipa dalle preghiere e dalle richieste di grazia divina.
“Al mi marito gli ho voluto un sacco di bene: per me era un angelo sceso dal cielo”
Beato lui, ho pensato, io che marito son stato anch’io, questa fortuna non l’ho avuta. Sarà perché non sono un angelo e soffro di vertigini e col cielo c’ho poca dimestichezza. E non ho nemmeno la capacità di essere quel diavolo che molte donne venerano molto più degli angeli.
“Le nostre tre bambine, quanto gli voleva bene.”
“Era tutto lavoro e famiglia. Ma gli era sempre a giro, faceva il ferroviere, il mi marito”
“Quando tornava dai campi, io gli facevo trovare la tavola apparecchiata. Ma lui prima di mangiare mi dava un bacio e mi diceva che ero la su regina”.
“E poi la domenica andavamo a messa e ci mettevamo nei primi banchi: io, lui e Ascanio il nostro unico figliolo”.
“Il mi marito si che ci sapeva fare: sapeva aggiustare tutto. L’era giornalaio e se li leggeva più lui de’ su clienti i giornali. La sapeva di ogni cosa, il mi povero marito.”
“L’era bravo, tanto bravo. Bastava fossi andava dal parrucchiere, o mi fossi messa un vestito più bello e nemmeno mangiava, ma mi portava in camera, chiudeva la porta che nostra figlia non entrasse e … lei mi capisce…., vero?”
Invece ci avevo messo un po’ a capire. Prima pensavo fosse colpa mia e avevo sensi di colpa. Non prestavo la dovuta attenzione alle sue parole e sentivo senza ascoltare, finendo per perdermi nei meandri delle sue parole e dimenticarmi i particolari del racconto.
Invece Rosina mi ha fregato. Eppure questo posto lo frequento da un po’ e avrei dovuto capire tutto prima. Rosina racconta ogni volta una storia nuova. In fondo fa sempre quel che noi vorremmo fare, si inventa un nuovo io ad ogni giro. Son convinto che non lo fa per ingannare gli altri o per apparire interessante, Rosina lo fa per se stessa. Si consola inventandosi la vita fantastica che più le piace in quel momento. Gioca a far la narratrice, lei. Mi sa che sono un po’ malato anch’io.
La vita è un labirinto: chissà quante volte passiamo dallo stesso posto e non ce ne accorgiamo.
“Vieni, vie…”, si blocca quando mi vede e il suo viso s’illumina.
La vita di Rita io la conosco, almeno quella ufficiale e quella che mi ha voluto raccontare. Rita l’ho portata io in questo posto una sera di un freddo Febbraio. I vigneti che circondano la casa erano innaturalmente coperti di nebbia, c’era brina fredda sulla parete della chiesa, sugli olivi, sulla cancello di ferro battuto. Una brina che diventava una patina di gelo che stringeva il mio cuore scaldato solo dall’amore dell’angelo che mi accompagnava.

“Andiamo, andiamo” mi dice come prima cosa.
“Andiamo dove, mamma?”
“A Lecce”
Lecce è uno dei tre nomi propri che ancora riesce a maneggiare: Gigi, Rita e Lecce.
E riassume tutti gli altri: casa, gioventù, passato, amori, ricordi: tutto precipitato nella parola Lecce.
Dove non tornerà mai più e se tornasse non se ne accorgerebbe.
Se fossimo in una delle fiabe che mi narrava quando ero bambino, io potrei fare l’eroe partendo per trovare tutte le parole che il drago cattivo le ha rubato nottetempo dal cervello. Ad una ad una le riporterei i sostantivi, gli aggettivi, i verbi, gli avverbi con cui possa di nuovo raccontarsi la vita.  Dovessi girare per tutto il regno incantato le troverei la grammatica che ha perduto e dopo avergliela consegnata lei tornerebbe a raccontarmi il mondo.
Ma quando usciamo fuori dal cancello, la maggior parte delle volte, mi dice:
“Ho paura. Torniamo dalle persone”.
Vorrebbe andare a Lecce, ma teme di uscire dal cancello.
Sa meglio di me che nella sua Lecce, lei non tornerà più. La sua vita, il suo passato se li è portati via la SDAT (Senile Dementia of Alzheimer Type) che tiene in ostaggio il suo futuro. E io non posso pagare il riscatto. E non siamo in una fiaba.
La vita è un labirinto.

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