I tre Arturi

“Buono lo sciù, Commendatore ?”
Lo sciù? Caspita, non sapevo facessero ancora gli sciù all’Alvino, penso, riponendo incuriosito il giornale sotto il sole di Piazza Sant’Oronzo.
Mi giro per cercare con lo sguardo il commendatore che ha mangiato l’enorme bignè pieno di crema e panna della mia infanzia. Doveva essere quel signore in gessato grigio scuro con un’aria demodé che ho intravisto prima di sedermi. Lo vedo nel tavolino in fondo a destra, ha un qualcosa di familiare anche se il volto è parzialmente coperto da quella che mi è sembrata una copia di un vecchio numero della Gazzetta del Mezzogiorno.
Che fortuna essere qui, che fortuna che abbiano sdoganato il caffè Alvino. Quando ero giovane da questo posto non volevo e non potevo passare. Era un covo di picchiatori fascisti della peggior risma e io in un locale del genere non ci sarei mai entrato e, se ci fossi entrato, probabilmente non me ne avrebbero fatto uscire, almeno con tutte le mie ossa intere.
Ma è un po’ che abbiamo smesso di giocare a rossi e neri e anche i fascisti, come le mezze stagioni, non sono più quelli di una volta. Il locale ha cambiato gestione e mi posso godere tranquillo il mio espressino freddo. E’ già primavera, il sole comincia a scaldare e le donne a mostrare parti di sé. Senza i cappotti a coprire le gambe, senza pesanti maglioni a nascondere il seno, è un piacere vederle attraversare la piazza con le gonne leggere che ondeggiando promettono di più.
Sono in vacanza e non solo dal lavoro. Sono in ferie dall’altro me, quello che ha un’altra vita, in un’altro posto. E torno nella città dove son nato e che amo come solo gli emigranti possono fare. Mi sono preso pochi giorni di ferie e ho appuntamento con il notaio.
Ho trovato un acquirente per il terreno in campagna che i miei acquistarono quando ero piccolo con il sogno di ristrutturare l’antica casa colonica e mettersi a coltivare la terra per diletto quando fossero andati in pensione. La ristrutturazione era venuta uno splendore, l’architetto aveva recuperato quanto più possibile la struttura tradizionale aggiungendoci tutte le comodità e le attrezzature di una casa moderna. Intorno c’erano quasi 20 mila metri quadri di terreno fertile, la metà uliveto e la meta vigna con un piccolo frutteto e uno spazio ampio per l’orto. Mio padre aveva anche iniziato a farci il vino e l’olio. Poi si ammalò e poco dopo morì. Mia mamma aveva continuato ad andarci senza curare molto la campagna. Con mia moglie e le mie figlie l'abbiamo utilizzata come casa delle vacanze visto che era a solo 10 chilometri dal mare. Per tanti anni anch’io avevo coltivato il sogno di tornarci e farne la mia casa. Avevo avuto la possibilità di trasferirmi con il lavoro, ma mia moglie non volle, non ho mai capito bene perché visto che anche lei era originaria di queste parti. Ora sono separato con le figlie grandi, ma oramai il tempo dei sogni è finito, non ho più la forza e la voglia di cambiare vita. Mi offrono tanti soldi e accettare mi pare l'unica cosa saggia da fare.
Dopo una passeggiata per il corso e una immancabile visita in piazza del Duomo, prendo via Palmieri, sbuco a Porta Napoli, passo dall’Arco di Prato e raggiungo la villa comunale facendo il più classico dei peripli della mia giovinezza. Più o meno la stessa strada che facevo quando tornavo da scuola.
Così arrivo dal mio barbiere. Frequento questo locale da quarant’anni o forse più. E prima ci andava mio nonno e mio padre. Oramai ci vado solo poche volte all’anno. Mi fa i capelli sempre, Mario, o come si dice da queste parti, mesciu Mario. Quando mio nonno mi ci ha portò la prima volta, lui era il ragazzo di bottega e per fargli far pratica gli fecero tagliare i capelli al bambino. Da allora sempre lui; prima, quando ancora vivevo qui, è capitato che i capelli me li tagliasse qualcun altro quando lui era occupato. Ora che vivo altrove, e vengo qui quando capita, mesciu Mario è un rito e se non è libero, aspetto o ripasso.
Quando mesciu Mario appenderà le forbici al chiodo, un ulteriore cordone ombelicale con la città dove son nato si spezzerà. E allora avrò già venduto la campagna.
Son quarant’anni che vengo qui, ma non so nulla di mesciu Mario e lui molto poco di me. Solo che non vivo più qui, ma fuori, al Nord e che insegno qualcosa in qualche posto. E lo ha capito sentendo le rare telefonate di lavoro che mi è capitato di ricevere mentre ero sotto le sue forbici.
“Professore, i capiddhi nu li sannu tagghiare addu stai tie”. Mi ha detto una volta che ha trovato i miei capelli mal tagliati, con quella abitudine tutta meridionale di unire il titolo referente, professore, al tu più familiare.
Non gli ho mai detto di essergli rimasto sempre fedele: ogni tanto i capelli me li taglio anche su, al Nord, ma cambio sempre posto. Non perché, come dice lui, non li sappiano tagliare, ma perché non voglio avere un altro Mario, solo parrucchieri occasionali.
“Professore, bene arrivato”, mi dice appena entrato. “Accomodati sulla poltrona, finisco la barba al commendatore e rriu”.
Nella sedia accanto col viso coperto di schiuma un signore anziano aspetta. Intravvedo i pantaloni di gessato grigio. Che strano penso, ancora c’è qualcuno che viene a farsi la barba dal barbiere. Mi sembrano gli stessi pantaloni del tizio al bar.
Il taglio di capelli è sempre un’esperienza un po’ mistica. Senza occhiali non ho un gran rapporto con il mondo esterno e sto con gli occhi chiusi, immerso in un mondo tutto mio, mentre mesciu Mario, armeggia fra i miei capelli con pettine, forbici e mani. Per abbandonarmi realmente devo fidarmi di chi gioca con la mia testa. E questo capita solo con mesciu Mario.
Finito il taglio, Mario prende un specchietto e riflettendo l'immagine su quello grande di fronte alla poltrona mi fa vedere la nuca, caso mai pensassi che dietro non li avesse tagliati o me li avesse colorati di bianco-rosso per dispetto.
Pago e vado via. E' un po’ che mi ripropongo di chiedergli se, per caso, non abbia intenzione di chiudere a breve, ma neanche stavolta lo faccio. Ho troppo paura della risposta.
Sono passate da poco le dieci e nel mio progetto originale dovrei avviarmi verso casa, ma vedo l’ingresso della villa e come seguendo un richiamo ci entro. Erano anni che non venivo in villa. Quando avevo delle figlie in età da giocare alla villa, questa era chiusa per i lavori di ristrutturazione, altre volte l’ho solo attraversata di passaggio per andare altrove. Eppure da bambino ci venivo spessissimo. La scuola elementare Cesare Battisti che tanto malvolentieri frequentavo è proprio di fronte ad una delle entrate della villa comunale. Ora è tutto cambiato e come potrebbe essere diversamente; son passati quarant’anni, Non c’è più la gabbia con la lupa, triste e spelacchiato inquilino della villa, e anche la vasca con le paperelle è tutta diversa da quella della mia infanzia.
Ma trovo la panchina che non vedevo da secoli. Non è materialmente la stessa panchina, ovviamente, ma è nello stesso identico posto, di fronte ad uno spazio rettangolare circondato da un’alta siepe dove i bambini andavano - chissà se lo fanno ancora? - a giocare a pallone usando cartelle e giacche per delimitare le porte. La siepe nasconde l’improvvisato campo di calcio a chi sta seduto in panchina che sente solo il vociare allegro, nervoso o irato dei bambini che lottano per vincere la partita.
Mi siedo e immediatamente, senza inserti pubblicitari, parte il film del ricordo. Facevo la quarta elementare, era, come oggi, primavera e la voglia di scuola piuttosto scarsa. Dei ragazzi più grandi mi invitarono a giocare a pallone, gli serviva un giocatore per arrivare ad otto. Benché non avessi ancora mai nargiato, come si diceva allora da queste parti, marinare la scuola, non ci misero molto per convincermi. La partita era avvincente e, se anche ero più piccolo, mi facevo onore. Per evitare un goal certo della squadra avversaria spazzai davanti alla mia porta con tutta la forza che allora avevo e il pallone volò oltre la siepe. La regola non scritta di tutti i campi di calcio improvvisati vuole che sia il giocatore che ha calciato il pallone ad andare a recuperalo.
Usciì dallo stretto varco nella siepe che è posto proprio di fronte alla panchina e un brivido gelido mi percorse il corpo accaldato. Non ebbi il tempo di girarmi per rientrare dentro che mio nonno alzò gli occhi dal giornale e mi vide. Notai nei suoi occhi prima stupore, poi delusione infine collera. Nulla disse ma mi fece cenno di sedere vicino a lui sulla panchina. Obbedìi anch’io in silenzio, avevo già capito che in alcuni casi meno si dice meglio è. Con calma piegò il giornale, lo posò sulla panchina si girò verso di me e mi tirò uno schiaffo forte sul viso. Io non piansi, abbassai gli occhi, mi guardai attentamente le scarpe e dopo pochi istanti mi girai verso di lui e lo abbracciai forte. Solo allora iniziai a piangere. Lui fu sorpreso ma ricambiò l’abbraccio, mi carezzò il capo e partì con la ramanzina.
Iniziò con l’importanza della studio e della scuola. Più studi e più sarai libero di fare quello che vuoi da grande. Se studi sarai libero di decidere come vivere la tua vita, se sei ignorante saranno sempre gli altri a decidere per te.
Finì con il valore della lealtà: ero stato sleale nei confronti dei miei genitori, avevo tradito la loro fiducia. Mi pensavano al sicuro a scuola e io ero a fare il vagabondo con dei ragazzi di strada. Avevo tentato di prenderli in giro. E con le persone a cui si vuol bene non si fa, non si fa proprio. Era il rispetto per la parola data quello che fa di una persona, una persona per bene.
Sarebbe rimasto un segreto fra noi se io avessi promesso di non farlo più. Promisi e mantenni la promessa. Non lo feci più e rimase per sempre un segreto.
Un vociare di bimbi e un pallone di cuoio rovinato che rotola verso la mia panchina mi distoglie dai ricordi. Mi alzo, prendo il pallone ed entro nel campetto di calcio attraversando l’aiuola. Consegno  il pallone ai ragazzi. Se ne avessi il coraggio, farei come Claudio Bisio in molti films: mi toglierei la giacca posandola sulla siepe e inizierei a giocare con i ragazzi che allegri mi accoglierebbero. Ma non sono Bisio e non siamo in un film.
Esco dalla siepe e rimango di sasso: c’è mio nonno seduto sulla panchina. Indossa un vestito gessato grigio e un sorriso cordiale.
“Finalmente”, mi dice “è tutto il giorno che ti vengo dietro”. E, come allora, mi fa segno di sedere accanto a lui. Mi piacerebbe vedere la faccia che faccio, ma non ci sono specchi nella villa.
Un pensiero tremendo mi assale.
“Nonno, sono morto, per caso?”
“Morto? E perche mai?”
“Allora sto sognando o sono impazzito?”
“Questo non lo so. Comunque prima fammi parlare che non abbiamo molto tempo. Poi mi potrai fare tutte le domande che vuoi. Ti ricordi di quella volta che ti sorpresi che avevi nargiato a scuola?”
“E come potrei dimenticarlo?”
“Ti ricordi la promessa che mi facesti?”
“L’ho rispettata, nonno. Sia da ragazzo che da adulto, ti giuro che mi sono sempre sforzato di essere leale, con tutti”
Il nonno era sempre stato e, a questo punto lo è tuttora, una delle poche persone con cui sentivo sempre la necessità di discolparmi. Come se non riuscissi mai a raggiungere lo standard che mi chiedeva.
“Lo so. Ho seguito la tua vita e so che sei una persona per bene. Ma so anche che adesso sei inquieto e infelice. Vorrei aiutarti”
E il nonno come sempre riesce a sorprendermi. Non l’avevo ammesso nemmeno con me stesso: mi sento perso e infelice. Pensavo fosse colpa solo degli anni che passano, inesorabili.
Il pallone vola di nuovo oltre la siepe e un bambino paffutello con dei riccioli biondi e dei calzoni corti del tutto fuori moda, corre a prendere il pallone.
Mio nonno lo chiama.
“Vieni, Arturo. Ti voglio presentare un mio amico”
Il bambino si avvicina, sorride e quel sorriso lo tradisce perché me lo fa riconoscere.
“Vedi, anche lui si chiama Arturo. Qui siamo tre Arturi”
Arturo mi porge educatamente la mano e dice:
“Allora potremmo fare la tavola rotonda”.
Ride e lo accompagniamo nel riso solo per cortesia. Non sono mai stato granché come battutista.
Gli do un buffetto sul viso e lo vedo tornare a giocare.
Si volta e saluta.
“Ciao nonno e ciao altro Arturo”.
“Ecco”, chiosa mio nonno “ora è arrivato il momento di essere leale con lui”.
“Aspetta Arturo, hai la scarpa slacciata” fa mio nonno, e prima che io possa dire qualcosa, si alza e gli va dietro. Entra nella siepe.
Sono turbato e chi non lo sarebbe al posto mio. Ora che torna, mio nonno mi deve spiegare tante cose.
Ma il tempo passa e lui non torna. Allora entro anch’io nella siepe.
Ma il campo di calcio non c’è come non ci sono più mio nonno e Arturo. Ci sono dei giochini per bimbi piccoli di legno, altalene, scivoli, un fossato con della sabbia. E genitori a giocare felici coi figli. Si sono tutti girati verso di me, non capiscono perché sia passato dalla siepe, quando dalla parte opposta lo spazio dei giochini dei più piccoli è aperto e accessibile facilmente. Sospettano losche ragioni.
Il mio cellulare suona e mi libera dall’imbarazzo.
“Professore, sono la segretaria del Notaio Mancuso. Il notaio ha sistemato le ultime cose e dice che il rogito si potrebbe fare già questa sera, se lei crede”.
“Grazie signora. Volevo dirle, mi scusi con il notaio, ma ho deciso di soprassedere alla vendita almeno per il momento. Avvertirò io gli acquirenti. Se c’è da pagare qualcosa me lo faccia pure sapere”
E mi avvio verso casa pensando a cosa potrei piantare immediatamente nell’orto.

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