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“Hai presente la canzone di
Vecchioni?”
“Quella che dice:
A te che mi hai truccato
il mazzo delle carte
perché vincessi ancora
da qualche parte.”
perché vincessi ancora
da qualche parte.”
Per fortuna non la canta.
Paolo è, se possibile, più stonato di me e sarebbe ancora più difficile starlo
a sentire. Da quando la sua compagna, madre di suo figlio di pochi anni, gli ha
detto che si è innamorata di un altro, è diventato un altro anche lui. Da ricercatore
intelligente e curioso, dotato di acume intellettuale e libertà di pensiero che
lo hanno sempre tenuto lontano dai luoghi comuni, è diventato un sofferente e
depresso malato d’amore.
“Finalmente ho capito”,
continua con fare da vecchio saggio, “ci sono donne che truccano le carte per
farti vincere e donne che fanno carte false per stare con chi vince”.
La sua uscita mi colpisce
più di altre e non capisco bene perché. Non può essere perché ne apprezzi il
retrogusto misogino: ho due splendide figlie oramai adolescenti e, per me, se
tutto il potere nelle prossime generazioni passasse alle donne, nulla avrei da
eccepire. L’esperienza di Paolo è invece diversa: la sua compagna l’ha lasciato
per l’avvocato dello studio presso il quale lavorava, uno degli avvocati più
ricchi e conosciuti di Firenze.
Mentre lui è un modesto,
economicamente parlando, ricercatore di economia politica in un’università in
grave crisi finanziaria come quella di Siena e divide il suo ufficio con me
(non che questo sia motivo di disdoro, almeno spero).
Per fortuna, fra i
pochissimi privilegi del nostro mestiere, c’è quello di non dover timbrare
alcun cartellino per cui, chi vuole, a parte lezioni e ricevimento studenti,
può anche lavorare in casa; Paolo rimane spesso a Firenze e io, da quando è in
queste condizioni, evito se posso di andare a lavorare in dipartimento, quando
so di trovarlo.
Non lo faccio per
cattiveria, magari si potrebbe dire per mancanza di bontà. Trovo che la
depressione sia straordinariamente contagiosa, più di una malattia virale.
E poi anche se non lo dico a
Paolo o a nessun altro sono un po’ depresso anch’io, forse più triste e
malinconico che depresso. Non mi sento particolarmente felice, se vogliamo
rimanere sul terreno prudente degli eufemismi.
Una prima settimana di
dicembre è già andata via, così come se ne sono già andati cinque anni del
nuovo millennio. La fine dell’anno s’avvicina veloce, ma io vorrei non venisse.
Sarà una notte di San Silvestro diversa da tutte le altre.
Solo due volte che io mi
ricordi, non ho passato la notte di San Silvestro con la mia famiglia
d’origine; una volta, a sedici anni, andai con Piero Pacoda a Firenze a casa di
un suo cugino universitario e un’altra volta, quella che poi sarebbe diventata
mia moglie mi trascinò a casa di un’amica.
Mia mamma aveva cinque
fratelli e una sorella, quattro dei quali vivevano a Lecce. Tutti avevano avuto
almeno un paio di figli e diversi avevano più o meno la mia età; con loro ho
trascorso la giovinezza negli anni leccesi. Erano i miei migliori amici oltre
che i miei cugini.
Siamo andati via tutti per
fare l’università e quasi nessuno è poi ritornato a Lecce a vivere. Sicché le
vacanze e specialmente quelle natalizie erano un occasione per passare un po’
di tempo fra noi e ciascuno a casa in famiglia. E sia la notte di Natale, sia
quella di capodanno le passavamo sempre tutti insieme.
Erano stati anni belli;
abbiamo iniziato a far partecipare ragazze e poi mogli e ogni tanto le ragazze
cambiavano e qualche volta son cambiate anche le mogli. Un anno, doveva essere
il 91, ci divertimmo molto passando la settimana fra Natale e Capodanno a
girare un film, Mille Spine nel Cuore, che poi vedemmo tutti insieme la sera di
san Silvestro fra risate, sfottò e applausi: una scena degna di Nuovo Cinema
Paradiso.
Quando la cosa cominciò ad
assomigliare sempre di più ad uno stanco raduno di reduci sono cominciati ad
arrivare i nostri figli e l’arrivo di una nuova generazione ha dato un nuovo
impulso e una nuova ragion d’essere al rito.
Come dimenticare i fuochi
sparati a mezzanotte dal balcone al settimo piano di piazza Mazzini,
inventandoci una gara, che abbiamo sempre perduto, con una famiglia di amici, i
mitici Burgos. Abitavano dall’altro lato della piazza e il padre, napoletano verace, aveva canali e
risorse per rifare piedigrotta a Lecce ogni 31 dicembre.
I riti poi partoriscono
altri riti: e per me e le mie figlie era diventata tradizione uscire il 29 o il
30 per comprare i fuochi, quasi sempre alla stessa bancarella; passando minuti
a contrattare sul prezzo, sempre perdendo nel gioco delle parti. E il venditore
non saprà mai quanto mi divertiva farmi fregare, e quanti soldi sarei disposto
a dargli adesso, solo per poter rifare tutto di nuovo.
E che dire del mercante in
fiera che chiudeva la serata Negli anni migliori se ne facevano due o tre.
Lunga, elaborata, lenta
l’asta per l’assegnazione delle carte, emozionante, enigmatica, piena di
tensione la scoperta dei premi vincenti. Tutto bagnato col buon vino
dell’ironia e condito con dosi abbondanti di affettuoso sfottò.
“E’ una carta a sviluppo
verticale”, iniziava zio Gigi, banditore d’ordinanza, “un animale a due zampe
con le piume”.
Quelli che avevano uccelli
cominciavano a disperarsi. Qualcuno per scaramanzia, già metteva il martin
pescatore, ultima sua carta, sul tavolo, dichiarandosi sconfitto.
“Va sempre di corsa”
continuava il banditore “e suona la tromba”.
Il martin pescatore era
salvo e con lui tutti gli altri uccelli.
“Chi c’ha il bersagliere,
insomma?” Sbottava infuriato il banditore, quando nessuno al tavolo denunciava
di avere la carta.
E voleva dire: “Quanto ci
mettete a capire, razza di parentame mentecatto.”
Noi, tutti, o quasi, avevamo
compreso, ma il bersagliere sembrava sparito, allontanatosi di corsa come
prammatica prescrive.
Quando qualcuno, disteso
comodamente sul divano dall’altra parte della sala, confessava imbarazzato che
era sua la carta appena bruciata, arrivavano puntuali gli strali feroci del
banditore.
“Santu cielo, nu sienti ca
sta lu cercamu”.
“Abba curcate, se sta dormi”
era la chiosa finale.
E giù, ad immaginare che
l’anno successivo chi non giocava al tavolo avrebbe avuto le carte confiscate.
Poi, fatalmente, son
cominciate le assenze; la prima carta uscita dal mazzo è stata, ironia della
sorte, proprio quella del banditore.
I più avveduti di noi
capirono subito che oramai il piano si era inclinato e la pallina avrebbe
cominciato inevitabilmente a rotolare via.
Lo scorso aprile la pallina
è caduta e un’epoca è finita. Mia mamma è rimasta sola, i quattro fratelli che
vivevano a Lecce, non ci sono più. La casa al settimo piano di piazza Mazzini è
stata venduta e i Burgos hanno definitivamente vinto, per abbandono, la
partita.
Una tradizione più che
trentennale è finita. Molti dei miei cugini non hanno più nessuno da cui
tornare e quindi non tornano, hanno figli grandi con altri interessi e mogli
che hanno altri parenti da salutare e altre tradizioni da difendere.
Per questo non voglio che
venga capodanno, per questo son triste, per questo sfuggo Paolo più che posso:
come può un cieco indicare la strada ad un orbo?
Fortunatamente Paolo va a
lezione, rimango solo e ho del lavoro da fare. Cerco su google il paper di
un’economista che si interessa ai temi che studio, C. Palos.
Digito in modo errato il
cognome e la ricerca risulta C Pakos. Sto per correggere, quando vedo la prima
pagina web trovata da google:
Dal
centro Impastato - Cuntrablog
Carmen Pakos 8 dicembre 2004
11:41. il problema è che si crea, non so per quale perverso sistema di
condizionamenti, anche in buona fede, un circolo vizioso ...
Carmen, Carmen, non vedo
Carmen da secoli. Dopo che ci vedemmo a Siena, le avevo scritto una o più volte
dall’Inghilterra, ma non mi aveva risposto; poco dopo l’avevo incontrata a
Lecce. L’avevo rimproverata perché non aveva risposto alle mie lettere e lei
era stata evasiva e non volli indagare. Mi era sembrato poi di vederla un
giorno a Bologna alla fine degli anni ottanta, vicino all’università dove
avevamo un seminario. Incerto se fosse veramente lei, avevo perso del tempo
prezioso e quando mi decisi ad andarle dietro, era già scomparsa fra la folla
ed io ero in ritardo per il seminario.
Carmen, la mia Carmen.
All’improvviso capisco cosa
mi aveva colpito della canzone di cui parlava Paolo prima. Nessuna donna
avrebbe truccato le carte per me, per farmi vincere, non certo mia moglie.
Nessuno riesce a farmi superare la malinconia per tempo che passa e mi lascia
indietro e delle cose che inevitabilmente cambiano facendomi sentire solo.
E penso a Carmen, la mia
Carmen. Che nostalgia Carmen, che nostalgia.
Apro la pagina web suggerita
da google. Si riferisce ad un intervento ad un blog antimafia e per fortuna
Carmen ha lasciato il suo indirizzo e-mail.
2
Data:07/12/2005
A: cpalos@inwind.it
Oggetto: i casi della vita
Da: arturo.enrico@unisi.it
Guarda un po' i
casi della vita.
Ero li' che
cercavo su google qualcosa su un collega
di nome Pakos e sbagliando ho digitato Palos. Accortomi dell'errore stavo per
correggere, quando mi sono accorto che fra i
risultati è uscito un tuo intervento in un forum su Impastato con la
tua mail. A questo punto scrivere per
salutarti mi è parso obbligatorio oltre che piacevole. Sempre che tu sia la Carmen che potrebbe mai
aspettarsi un saluto da me, ovviamente; ma ho letto quell'intervento e non
penso vi siano dubbi. Quello che ho letto sembrerebbe suggerire che sei a
Lecce, come te la passi ?
Ti abbraccio,
arturo
Data:09/12/2005
A: arturo.enrico@ unisi.it
Oggetto: RE:i casi della vita
Da: cpalos@ inwind.it
Sì, sono io: più
triste e più saggia, come direbbe il poeta, ma sempre io. Dopo tutti quest’anni
con quello che è successo, non avrei potuto che scegliere Lecce come
"casa". Da qui se ne vanno in tanti, ma io che una vita fa ci sono
capitata per caso, voglio restare: se ce ne andiamo tutti, qui rimane
solo la mafia, che non si chiama mafia, ma usa gli stessi sistemi e la stessa
logica; faccio l'insegnante, per scelta e in una scuola cattolica, per scelta:
macino polvere nei polmoni del potere, direbbe qualcuno.
Cresco una figlia,
Margherita, che sta venendo su bene, mio malgrado, con due cani e vari gatti
(il numero non è precisabile, dal momento che continuano a moltiplicarsi). Ah,
ho pure un marito.
E tu? tante care
cose belle.
Un abbraccio,
Carmen
Data:11/12/2005
A: cpalos@inwind.it
Oggetto: RE:RE:i casi della vita
Da: arturo.enrico@unisi.it
Carmen
bella,
mi ha fatto
molto piacere leggerti e ancora più piacere sapere che hai una figlia (il cui nome, Margherita, mi
sembra magicamente adatto per una figlia di Carmen). Sono contento che sei a
Lecce. Mi sa che un po’ ti invidio. Io rimango attaccato alle mie origini
venendo a Lecce alle feste
comandate, comprando e spesso leggendo
libri editi a Lecce o su Lecce (per
esempio, i romanzi di Livio Romano; ora che ricordo, ho scritto una mail anche a lui, forse è il
caso che cominci a preoccuparmi),
comprando cartoline antiche di Lecce su ebay, tifando per il Lecce. Le ultime
discutibili e un po’ kitsch, come mi diresti,
se fossi sincera. Stavo per tornarmene anch’io un pugno di anni fa (quando feci una supplenza all’Ecotekne), ma
poi non se ne fece nulla.
Al contrario
della Teresa di Mistandivò, me ne manca il coraggio e poi non dipende tutto da me: i legami
affettivi non si chiamano legami mica a caso.
Ma veniamo alla
nostra partita personale. Ti batto per figle: due a una (Giulia, la grande, fa 13 anni a
dicembre, Elena ne ha 9). Ma tu mi batti per due cani a una (ho una labradorina
deliziosa, di 5 anni), e mi stracci sui gatti per numero imprecisato a
zero. Purtroppo, e parlo solo per me,
ovviamente, siamo pari sui coniugi.
Scrivimi ancora,
se ti fa voglia, un abbraccio, arturo
Data:18/12/2005
A: arturo.enrico@ unisi.it
Oggetto: RE:RE:RE:i casi della vita
Da: cpalos@ inwind.it
19 dicembre.
Margherita a casa con i suoi amici: preparano gli striscioni per la
manifestazione del giorno dopo. Cantano le stesse canzoni che urlavamo
(stonando) a squarciagola nel viale degli studenti insieme a tanti altri o
quando andavamo al mare, sul lungomare di Santa Caterina, solo per noi, oramai
una vita fa.
Che nostalgia,
Arturo, che nostalgia!
Carmen
Data:20/12/2005
A: cpalos@inwind.it
Oggetto: quel periodo
Da: arturo.enrico@unisi.i
Anche io mi
sento molto legato a quel periodo e me ne sono spesso chiesto la ragione. Non
penso sia solo perché eravamo un gruppo di belle persone che si volevano bene e
che volevano bene al mondo. E nemmeno solamente per il motivo banale che
eravamo giovani e scoprivamo cose nuove.
Il fascino di
quel periodo è che la nostra gioventù
sembrava coincidere con la gioventù del mondo: per noi nulla era ancora,
e tutto poteva ancora essere, ma anche la società sembrava stare crescendo con
noi e, come noi, sognando in grande. Un periodo così è meravigliosamente unico: sembrava che il
mondo ci stesse aspettando perché
fossimo noi a farlo più bello.
Il luglio di
qualche anno fa ero a Lecce da solo e fui raggiunto dalla notizia che un mio amico, malato da tempo ma
per il quale, almeno io, ancora speravo,
se n’era andato. Sospesi gli esami e presi la macchina. Mi ritrovai, quasi senza volerlo, a Santa
Caterina; cercai Fernando, senza
successo, allora mi comprai un costume in piazza e me ne andai alla
curva dove noi andavamo a fare il bagno. Cercavo inconsciamente di raggiungere
il posto ideale, la mia isola che non
c’è, la mia casa sull’albero dove nulla di brutto sarebbe mai potuto
accadere.
A chi soffre di
vertigini consigliano di non volgere mai lo sguardo verso il basso; con il
tempo è la stessa cosa. Fa una certa impressione pensare che quel periodo sia lontano trenta anni. E a
me pare ancora più strano pensare che mia
figlia non sia molto più piccola di quanto fossimo noi allora (e magari Margherita ci è ancora più
vicina).
Un abbraccio,
arturo
P.S. In
verità stonavo solo io e tanto, tu cantavi che era una gioia sentirti.
Data:22/12/2005
A:
arturo.enrico@ unisi.it
Oggetto:
RE:quel periodo
Da: cpalos@ inwind.it
Sei a Lecce fra
Natale e Capodanno?
Volevo
organizzare una cena con tutti gli amici di quel periodo, che ne pensi? potreste
venire? Pensavamo di farla il 29 o il 30. Fammi sapere,
Carmen
By the way, il
mio cellulare è 328362……
Bip, Bip
Messaggio da
33027…..
“Cara Carmen,
sono arturo. buon natale. Se organizzate vengo volentieri; preferisco il 29 xkè
il 30 arriva mio fratello e vado a prenderlo a brindisi
Inviato il
24/12/05 ore 12.46
Bip, Bip
Messaggio da
carmen
“Tanti auguri
Arturo. Ti confermo per il 29 sera, a casa mia, via Idomeneo 5. vieni/venite
alle 8. ci saranno tutti o quasi”
Inviato il
25/12/05 ore 00.10
3
Via Idomeneo è una strada
del centro storico. Parte dalla villa comunale e arriva fino a quella che per
me è sempre stata porta Napoli e che solo d’adulto seppi essere invece un arco
di trionfo dedicato a Carlo V.
Quando ero ancora convinto
che fosse una porta e andavo a scuola, percorrevo molto spesso la strada che
gli corre parallela, via Prato, per raggiungere il Palmieri, il più antico fra
i licei classici di Lecce. Tante, troppe volte, io e Tomaso, ci rendevamo conto
di essere in preoccupante ritardo proprio quando passavamo davanti all’imbocco
di via Idomeneo. Alzavamo allora il passo per tentare, spesso inutilmente, di
non incorrere nelle ire del preside Salvatore che mal sopportava i ritardi e
ancor meno i ritardatari.
Non so da dove inizi la numerazione,
se vicino a Porta Napoli, pardon Arco di Trionfo, o vicino alla villa e quindi
dove sia il 2. La cosa più saggia sarebbe iniziare a percorrere via Idomeneo
dalla villa comunale che non dista molto da piazza Mazzini dove stanno i miei e
dove abito quando sono a Lecce.
Ma quando mai ho scelto di
fare le cose più sagge?
E poi sono inquieto e non ho
tutta questa fretta di arrivare.
Per intanto entro in un
enoteca vicino piazza Mazzini, e perdo venti minuti buoni per scegliere una
bottiglia di vino. Spendo quasi un patrimonio per un primitivo che mi giurano
eccezionale. Non riesco a liberarmi dalla vecchia abitudine di chiedere
all’oste se il vino è buono.
Poi mi avvio con passo lento
verso piazza Sant’Oronzo. Il mio piano è quello di percorrere via Vittorio
Emanuele II, il corso dei leccesi. Arrivato all’altezza di piazza del Duomo,
girare a destra per via Palmieri, in fondo alla quale ci sarà l’inizio, o la
fine, chissà, di via Idomeneo.
Faccio il giro più lungo: la
sto proprio prendendo alla larga.
Quando entro nel corso, vedo
che la chiesa di Sant’Irene con la sua bella facciata lineare è finalmente
sgombra dalle impalcature. E’ aperta e non resisto alla tentazione d’entrarci.
La chiesa è stata in restauro per tanti anni e forse non ci sono mai entrato
prima.
Son sempre stato legato al
nome Irene, santa protettrice dei leccesi prima di essere spodestata da Oronzo,
nonché nome di una zia di mia mamma dotata di un caratterino niente male.
Indugio a osservare i due splenditi altari laterali, riccamente lavorati in
pietra leccese con un barocco leggero, luminoso ed elegante tipico degli
artigiani salentini del seicento e che è la cifra dell’intera città.
Ma vedi se mi devo mettere a
fare il critico d’arte…
Esco e sono già le 8 e
venti. Sarei già in ritardo, ma qui arrivare in orario è considerata una
scortesia.
Vediamo se mi posso
inventare qualche altra cosa pur di tirar tardi….
Infatti quando arrivo
all’altezza di piazza del duomo, rallento ulteriormente. Entro in piazza al
posto di girare a destra per via Palmieri. Pigramente mi siedo sui gradini del
seminario a rimirare la più bella piazza chiusa d’Italia, dove il barocco
diventa un’armonia lieve che canta una canzone melodica o rock a seconda dei
giochi di luce creati dal sole.
C’è un chiaroscuro
indistinto anche dentro di me: sto pensando seriamente di tornarmene a casa.
Come si sa, questi incontri fra i reduci di un qualcosa - scuola, università,
militare, politica che sia - sono drammaticamente rischiosi e possono creare
uno tsunami di malinconica tristezza. Vedere le pance, le pelate, gli sguardi
spenti e delusi degli altri e capire che altro non sono che lo specchio della
tua pancia e delle tue disillusioni può essere difficile da sopportare. E non
ho proprio voglia di affogare nella malinconia.
Mi alzo. Ho deciso: me ne
torno indietro. Inventerò una scusa o semplicemente non mi farò più sentire. E
la bottiglia di primitivo che tengo da più di mezzora in mano, me la scolo
tutta io questa sera per dimenticarmi di non aver voluto ricordare i miei amici
di 30 anni fa.
Come tutti quelli sollevati
per aver finalmente preso una decisione, fosse anche quella sbagliata, cammino
a passo svelto, adesso. Al centro di piazza sant’Oronzo sotto la colonna romana
che un tempo era posta alla fine della via Appia a Brindisi e che ora si offre
come basamento per la statua del santo, mi folgora il pensiero di Carmen.
Rallento ma non mi fermo. E
se avesse organizzato la cena solo per avere un’occasione perché ci potessimo
rivedere? Sarebbe delusa se non ci andassi e difficilmente si berrebbe una
scusa qualsiasi che le propinassi per sms. Non è meglio se si beve il
primitivo?
Se ora torno a casa, se me
ne scappo, non la rivedrò mai più: non voglio che accada.
Sotto l’orologio storico di
piazza sant’Oronzo, faccio ancora una volta dietrofront. Accelero. Sono le 9
meno dieci e comincio ad essere in ritardo conclamato anche per un leccese. Poi
adesso mi è venuta una voglia matta di arrivare e di vederla.
Non c’è che dire sono un
tipo deciso.
Giunto all’inizio di via Idomeneo,
trovo il portone, ma non la voglia di bussare.
Allora la chiamo. Voglio
sentirne la voce, prima di vederla.
“Non mi dire che non vieni
più, Arturo”, mi dice senza neanche salutarmi.
“No, ci mancherebbe altro”
dico mentendo e sperando che nessuno mi abbia visto fare l’arte de li pacci su e giù per il corso, “sono qui sotto. Solo…
non mi ricordavo il numero” e inanello la seconda bugia.
“Scendo e ti vengo incontro,
aspettami in strada”.
Passano pochi istanti e il
portone del numero 2 di via Idomeneo lentamente si schiude.
Vedo prima il piede destro,
la gamba, il bacino e poi la vedo tutta. Due metri appena ci separano e si
vanno a sommare ai trent’anni che ci hanno diviso.
E’ ancora bella la mia
Carmen. La bellissima ragazza è divenuta una bella signora cinquantenne. Il suo
corpo si è un po’ arrotondato diventando più amabile e accogliente, le sue
gambe rimangono snelle. Qualche accenno di ruga, rende il viso più espressivo.
Ma il suo sorriso: il suo sorriso è quello di sempre, dolce e malizioso insieme.
Indossa un tubino nero che
le modella il corpo arrivando appena sopra il ginocchio, gli stivali ai piedi.
Mi abbraccia e ci diamo un bacio sulla guancia.
Siamo senza parole e niente
diciamo.
Ho da subito una strana ma
fortissima sensazione. Difficile da spiegare quanto semplice da interpretare.
Non so se avete presente
alcune tappe di montagna del giro o del tour di qualche anno fa tormentate da
pioggia e freddo. All’arrivo i ciclisti stremati trovavano un massaggiatore che
li copriva immediatamente con una coperta calda. Mi sono spesso immaginato
quale piacere, quale senso di sicurezza e di accoglienza desse loro quella
coperta calda gettata sulle spalle.
Ed è questo l’effetto che mi
ha fatto Carmen, una coperta di amore che mi circonda, mi accoglie e mi scalda.
E un senso di essere a casa,
di aver raggiunto finalmente il nido.
Mi fa strada salendo una
breve scala ripida che ci conduce a casa sua. Mi vergogno di quel che ora mi
passa per il capo. Vorrei metterle le mani sul culo e trascinarla nel sottoscala
buio che ho intravisto entrando dal portone e amarla, amarla, amarla.
“Eccolo Arturo” dice appena
entrata nel grande stanza d’ingresso, dove c’è tanta gente. E subito mi blocco
terrorizzato. A parte Piero e Fernando che ben ricordo anche per averli visti
più di recente, gli altri mi sembrano illustri sconosciuti. Spero che Carmen
abbia invitato anche altra gente, di un altro giro o di un’altra epoca. Magari
sono amici venuti dalla Grecia.
Ma non è così. Tutti mi fanno
cenni di saluto e danno l’impressione di sapere chi sia. Mi precipito a
salutare Fernando e Piero per evitare che qualcuno capisca che non ho
riconosciuto quasi nessuno altro.
Una ragazzina con i capelli
neri e il viso intelligente e cordiale e un sorriso che conosco mi porge la
mano.
“Sono Margherita, la figlia
di Carmen” mi dice.
“Ciao, bimba bella”.
Non riesco a trovare niente
di più simpatico da dire. Ha un sguardo curioso e interrogativo, sembra
studiarmi: chissà se la mamma le ha parlato di me.
“E io sono Saverio, il
marito”. Da come mi guarda e da come ha enfatizzato la parola marito, ne deduco
che invece lui sappia benissimo chi io sia o, meglio, chi io sia stato.
“Oh, finalmente, che piacere
conoscerti” gli dico.
Sento di esser diventato
rosso: la vergogna per i pensieri sconci su sua moglie che ho appena fatto,
forse. O più probabilmente, un fottuto senso di colpa. Perché adesso so che
gliela porterò via. E mi chiedo se l’abbia capito anche lui.
“Fa un po’ caldo” dico per
rimediare.
“E a me non mi riconosci” mi
chiede una simpatica signora sulla cinquantina battendomi la mano sulla spalla.
“E io, invece, chi sono”,
dice un’altra.
In un caso e nell’altro lo
ignoro completamente. Forse son loro che si sbagliano, o forse è uno scherzo di
Piero.
Già me lo figuro, convincere
la moglie di qualche comune amico che non faceva parte del nostro giro d’allora
e che quindi non sarei tenuto a riconoscere, a farmi uno scherzo barbino.
Perché Piero sa bene, lui
che mi conosce dall’estate prima del IV ginnasio, che non direi mai che non mi
ricordo di loro. Blefferei, giurando di ricordarmi benissimo. Anche se magari,
il nome, al momento, mi sfugge.
“E no signori miei così non
vale, non è giusto. Voi sapevate benissimo che stavo arrivando. Carmen vi avrà
detto, vado incontro ad Arturo” dico ad alta voce, tentando di uscire
dall’angolo.
“E son sicuro che qualcuno
ha fatto: Arturo? Arturo chi? E qualcun altro magari “Ah, Arturo, non era quello
che ha perso tutti i soldi della moglie giocando ai cavalli?”
“Altrimenti mica mi
riconoscevate….con tutto il tempo che è passato e tutti questi chili che son
arrivati senza essere stati invitati, peraltro….”
“E comunque, per vostra
informazione, non gioco ai cavalli e non ho sposato una donna ricca...”
Qualcuno ride, bontà sua. E
mi sono liberato un po’ dell’imbarazzo.
E allora le presentazioni
possono cominciare. Di alcuni e alcune non mi ricordo nemmeno dopo che mi hanno
detto il nome. Sarà che sto iniziando a perdere la memoria come mia mamma.
La serata in fondo va bene.
La padrona di casa ha organizzato tutto al meglio, il buffet è ricco e
saporito. La compagnia simpatica. In verità sarebbe andata bene anche se non ci
fosse stata Carmen. Forse la storia della tristezza delle rimpatriate è un
luogo comune: letteratura pigra e cinema di serie B.
Io e lei ci studiamo da
lontano. La cerco con lo sguardo e ogni tanto vedo che anche lei mi guarda. Ma
in fondo quasi ci evitiamo.
Io sono preoccupato che, se stessimo
vicini, la cosa possa diventare evidente. Io ho sentito il suo amore dal primo
abbraccio e mi pare tanto chiaro che ho paura che se ne accorgano anche gli
altri.
La vedo che cerca il mestolo
per servire i rigatoni con il formaggio ricotta e le melanzane fritte che
profumano d’estate. Glielo porgo e le sorrido.
Mentre la gente comincia a
servirsi da sola le chiedo di sua mamma.
“Fisicamente sta bene per i
suoi settanta quattro anni. Ma non esce più di casa da quando è morto Nino. E
triste e depressa, e si considera in lutto permanente effettivo”.
“Nino?”
“Ti ricordi quel professore
del Virgilio che veniva sempre in libreria? Non te ne avevo parlato, allora? Si
sono sposati alla metà degli anni ottanta. Sono stati felici insieme e io ho
guadagnato anche una sorella. E’ morto due anni fa, un tumore, fortunatamente
una cosa breve. Ho sofferto come fosse mio padre.”
“E tuo padre, invece?”
“Mio padre è morto il 13
gennaio del 1982 in
un incidente. Ma io lo seppi solo una settimana dopo. Non sono neanche potuta
andare al suo funerale”.
“Mi dispiace” è la cosa più
originale che trovo da dirle “Per tutti e due” e con la mano le stringo
affettuosamente l’avambraccio destro. Mi guarda, gli occhi sono umidi e la
bocca con le labbra leggermente dischiuse.
Per un attimo è come se
fossimo soli in questa stanza.
“Quest’insalata con le
arance è ottima, Carmen. Mi devi dire come la fai”.
La domanda di Angela rompe
l’incantesimo e ci riporta nel luogo dove tutti e due dovremmo essere. Non
l’avevo sentita avvicinarsi. Ero solo con Carmen. Mi guardo intorno e ho
l’impressione che tutti ci stessero osservando e Angela, da amica sincera, ci
sia venuta in soccorso.
“Piero mi ha detto che hai
due figlie. Come mai non le hai portate?” mi chiede Angela mentre Carmen si
allontana per parlare con altri amici.
“Veramente mi volevo gustare
la serata in tranquillità. Temevo che si sarebbero annoiate e mi avrebbero ben
presto costretto ad andar via.”
“E tua moglie?”
“Non dovrebbe essere una
allegra serata spensierata?”
“Ce l’hai almeno le foto
delle tue figlie da farmi vedere?”
“Per chi mi hai preso? Non
sono il tipo che gira con le foto delle figlie nel portafoglio.
“Ah, ecco”.
“Ma sono il tipo che ha
portato una penna USB con un po’ di foto. Se Carmen ci dà un pc te le faccio
vedere.”
Margherita si incarica di
accendere un pc nella stanza accanto e io, Angela, Carmen e qualche altro vediamo
le foto delle mie figlie e di mio nipote sul monitor.
Dopo le prime foto, Carmen
va via. E a me dispiace: vorrei conoscesse da subito le mie ragazze.
Dopo qualche minuto,
sentiamo il botto di un tappo di spumante appena stappato. Raffaele ha portato
due bottiglie di Ferrari che ora comincia ad essere versato nei calici. Ci
festeggiamo e in fondo ce lo meritiamo.
Il vino prima, lo spumante
poi, cominciano a liberare anche le memorie e le rievocazioni: piatto classico
di questi incontri.
Ed è un inseguirsi di “Ma ti
ricordi….” o “E de dha fiata, tie ta scerratu..?”
Ad un certo punto qualcuno
tira fuori il ping-pong.
Avevo un tavolo da ping-pong
in garage e io e Fernando ci facevamo interminabili partite. Molto spesso
arrivavo in ritardo agli appuntamenti con Carmen e mi giustificavo con il fatto
che la partita con Fernando era durata più del previsto.
“Quanto lo odiavo quel
tavolo da ping-pong” fa seria Carmen, quasi come se stesse pensando ad alta
voce. E la sua voce arriva in un momento di particolare silenzio.
Cade il gelo, almeno così mi
sembra. Ma dura solo un attimo.
Giuliana la guarda un po’
stranita.
Avrà capito quel che ho
capito io. Non è un ricordo ma una dichiarazione di nostalgia e una confessione
d’amore.
Fortunatamente qualcuno sta
già dicendo un’altra amenità e l’attenzione si storna da noi.
Cerco con lo sguardo
Saverio. Ha il viso contratto. Mi dispiace.
Vorrei potergli parlare con sincerità,
ma non so se riuscirei a spiegarmi perché ancora non ho capito bene nemmeno io.
E poi magari non mi crederebbe e mi tirerebbe un pugno in faccia.
Vorrei dirgli che se questo
fosse un film a cui stessi assistendo, io farei il tifo per lui, senza se e
senza ma. Arturo mi starebbe antipatico. Io ho sempre parteggiato per chi perde
e odiato i vincenti.
Tu stai perdendo, vorrei
dirgli, ma ti garantisco che io non sono un vincente: nella vita sono molte di
più le mie sconfitte, magari più delle tue. Se fossi veramente un vincente, mi
comporterei come Rick Blaine in
Casablanca, l’eroe della mia adolescenza cinematografica e mi farei da parte.
Tu non sarai forse Victor Laszlo, ma sei un brav’uomo e non ti meriti quello
che sto facendo. Ma io non sono un eroe, ma un uomo mediocre di mezza età che
non è capace di rinunciare al suo ultimo sogno. Mi dispiace, Saverio.
Oramai si è fatto tardi,
molti vanno via, e siamo rimasti in pochi. E’ il momento nelle feste in cui i
padroni di casa invitano con il pensiero, gli ultimi ritardatari ad
affrettarsi.
Come si dice a Lecce: arriva
l’ora dell’ oru-oru.
Oru-oru ognetunu a casa loru.
Ma Carmen con gli occhi mi invita a restare, e
io resto più che posso. Ma quando anche Fernando prende la via di casa, e si
offre di darmi uno strappo con la sua auto che è parcheggiata subito fuori por…
l’arco di trionfo, non posso che dire di sì
“Vi accompagno alla
macchina” dice Carmen.
Arrivati all’auto ci
salutiamo. Carmen mi dà un abbraccio lungo, molto lungo e mi sussurra: “Mi
raccomando”.
La vedo lentamente tornare a
casa, mentre vorrei restasse con me. Anzi no, vorrei tornassimo a casa insieme,
meglio ancora che avessimo una casa dove tornare, insieme.
A letto non riesco a prender
sonno; i miei muscoli ricordano il suo abbraccio, i miei occhi vedono ancora i
suoi passi mentre torna a casa. Come il più classico degli adolescenti mi è
venuto di comporre una poesia.
Avrei voluto salutare tutti, ringraziarli per la splendida serata, prometter
loro di rivederli al più presto,
Avrei voluto chiudere la porta.
Avrei voluto girarmi verso di te
e sdraiarmi dolcemente sul
tuo sorriso.
Invece ho passato la porta,
ho visto la strada e te che tornavi a casa, la tua.
Ti ho visto andar via, chissà se mi sorridevi.'
E’ tardi: sono le tre passate. Ma se è tutto come dico io neanche lei sta dormendo.
Prendo il cellulare e le mando un messaggio
“Cuore, e se ci vedessimo, prima che parta?”.
Avevo ragione, era sveglia e mi risponde subito.
“Why not”.
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