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Scende a tratti una pioggia
leggera. Ma c’è tanta luce e il cielo rimane molto luminoso.
Abbiamo deciso di
incontrarci al mare di Santa Caterina, dove da ragazzi andavamo a fare il
bagno.
Il clima è incredibilmente
mite per i primi di gennaio. Il mare con questo tempo è bellissimo: sottocosta
accarezza dolcemente gli scogli, all’orizzonte si nasconde sotto il cielo. Canta
una canzone dolce, un accompagnamento musicale e visivo al tema della nostra
storia. E’ un testimone consapevole, partecipe e discreto.
E’ la prima volta da
trent’anni che siamo soli.
Ci guardiamo, ci
accarezziamo con gli occhi, ci raccontiamo anni di vita, seduti sul muretto che
guarda il mare. Ci narriamo storie vissute parallelamente.
Le racconto di quella volta
che mi sembrò di vederla a Bologna, nell’ autunno del 87 o nell’inverno
dell’88.
“Beh, era possibile fossi
io. In quel periodo passavo parte della settimana a Bologna e abitavo vicino a
via Zamboni, dove mi hai visto. Io non mi sono accorta di nulla”.
“Per un paio di mesi, son
venuto spesso a Bologna. Chissà cosa sarebbe successo se ci fossimo
incontrati”.
E abbiano entrambi il
desiderio di scrivere la storia con la fantasia, di chiederci come sarebbero
andate le nostre vite, se…
E capiamo delle cose che non
avevamo ancora capito.
Mi aveva colpito il fatto
che Carmen fosse stata tanto precisa nel dirmi la data della morte del suo
papà, come se volesse dirmi qualcosa. E poi grazie alla potenza di internet ho
capito. Ho cercato in rete la data precisa dell’attentato di Prima Linea a
Siena, il 21 Gennaio 1982. Tutto torna.
“Quando sei venuta a Siena
era appena morto il tuo papà”.
“Si. Ero distrutta dal
dolore, dai sensi di colpa, per le tante volte che non sono andata a trovarlo.
Per il fatto che avevo preso troppo la parte di mia mamma. Per aver rinnegato
lui e anche la Grecia. Incazzata contro il destino che non mi aveva permesso di
vederlo per l’ultima volta.”
“Lo sai, ho capito che la
nostra era una storia speciale, quando in una delle prime mail mi hai
raccontato che alla notizia della morte di un tuo amico, eri venuto qui. In
realtà stavi dicendo che cercavi me”
“Siamo uguali, Arturo. Io quella
volta feci lo stesso: ero alla disperata ricerca di un riparo e cercai te”.
“Ma perché non mi dicesti
nulla, perché la storia delle BR?”
“Io mai ti dissi di aver
preso parte all’attentato. Ero in fuga, certo, ma non dalla polizia. Ti avrei
detto tutto, quella mattina e ti avrei chiesto di accompagnarmi in Grecia, a
salutare mio padre, almeno sulla sua tomba e a chiedergli scusa.”
“E dopo che hai fatto?”
“Come dice quella ad Ecce
Bombo, l’ultimo film che abbiamo visto insieme? Ho fatto cose, ho visto
gente. Ma sempre con te nel cuore e
nella pelle. Ho avuto delle storie anche importanti. Si lamentavano che non mi
lasciavo mai andare fino in fondo, che non ero mai veramente coinvolta. E
quando le mie amiche mi parlavano di quanto fossero innamorate, e quando vedevo
i loro occhi illuminati quando raccontavano dei loro uomini, io mi chiedevo
cosa avessi di diverso, di sbagliato. E poi capivo una cosa semplice: loro non
erano te. E mi arrabbiavo con loro, mi arrabbiavo con te e mi arrabbiavo ancora
di più con me stessa. Com’era possibile una cosa così?”
“Poi un giorno decisi di fare un falò”.
“Un falò?”
“Era arrivato Saverio, un ragazzo dolce e disponibile che mi offriva quello
di cui in quel momento avevo bisogno. Avevo bisogno di "casa", di
affetto, di sicurezza. Al contrario degli altri lui non ha preteso l’amore con
l’A maiuscola. Anche perché gli ho parlato subito della tua presenza
"ingombrante"”.
“Due giorni prima che mi arrivasse la tua cartolina dall’Inghilterra, Saverio,
mi aveva chiesto di sposarlo. Volevo dirgli di si, desideravo una vita normale
e sapevo che potevo averla solo lontano da te. Allora presi la cartolina, le
lettere che ci eravamo scritti da ragazzi, le foto che avevo di te e di noi. Andai
nel grande camino di mia mamma. Impilai tutto a formare una pira dove bruciare
il tuo ricordo e tornare libera. E allora pensai di avercela fatta.”
“Mi sono spostata e ho riprovato a vivere. Certo avevo rinunciato
all’Amore, quello che ti blocca il cuore, quello che ti fa tremare, ma pensavo
di essere libera. L'amore non esiste, pensavo, almeno per me: ero come
anestetizzata, vivevo tranquilla, avevo amici, interessi, sfogavo la
"passione" nel lavoro, nella politica, con amici e parenti. Nell’amore
per quello che oramai sentivo il mio Paese, l’Italia, e la mia bellissima città
adottiva, Lecce.
Il mio si poteva definire un bel matrimonio tranquillo, penso di essere stata
una brava moglie e voglio bene a Saverio. Ero e sono straordinariamente
entusiasta di essere mamma di Margherita.
Poi la tua mail: un terremoto, nella testa e nel cuore.
E’ tornato a galla tutto quello che avevo cercato di sommergere e
"bruciare".
“E ora sono qui a chiederti cosa vuoi fare.”
“Perché, te lo dico subito, Arturo, se quello che vuoi propormi è una
scopata, o come diresti tu che odi il linguaggio volgare, di consolarci dai
guai della vita facendo l’amore, magari in macchina di fronte al mare, al
nostro mare, ti dico di no. Non ti nascondo che ti desidero, ma non voglio
questo”.
E mi prende una mano fra le sue, mi accarezza le dita una ad una.
“Non ci crederai ma io me le ricordo queste mani. Mi ricordo le dita,
tutte, una ad una. E le tue labbra…”
Mi sfiora dolcemente le labbra con l’indice prima e poi con il pollice. Mi
viene duro e il desiderio aumenta quando vedo che ha gli occhi chiusi. Non
riesco a capire se sta naufragando nel
passato o immagina e sogna il futuro.
E allora le racconto della sensazione forte che avevo provato appena
l’avevo vista. Il suo amore l’avevo sentito subito, sulla pelle. Sorride quando
le racconto la metafora del ciclista e della coperta.
“Ma da quale salita sei reduce? Perché desideri questa coperta calda?”, mi
chiede.
“In realtà non lo so, Carmen. Forse sono un reduce e basta. Forse non mi
adeguo al tempo che passa, alle cose che cambiano. Forse, semplicemente non
sono più orgoglioso di me e di come vivo in questo mondo che ha volte non sento
il mio”.
Suona il suo cellulare. Risponde, si scurisce in volto. Si allontana da me
e vedo che discute animatamente.
Torna verso di me e mi arrivano le sue ultime parole, “Va bene, sto
arrivando”.
“Arturo, devo andare. Era la scuola di Margherita: i ragazzi hanno
protestato per un’assemblea che il preside non voleva concedere. Sono volate
parole grosse, ora il preside minaccia rapporti e a pochi mesi dalla maturità
non è cosa. Hanno urgentemente convocato i genitori. Non posso lasciarla sola.
Sono anche rappresentante dei genitori nel consiglio d’Istituto”.
“Non ti preoccupare. Ci rivediamo”.
Prendo la copia del libro di racconti di Carver che le avevo regalato, apro
alla prima pagina e le scrivo.
“Io ci sono, tu ci sei. In modo o nell’altro faremo”.
Lo scrivo, ma non so se ci credo.
Le porgo il libro, le prendo una mano, la tiro verso di me, le do un lungo
bacio sulla bocca. Riconosco le sue labbra, ritrovo la sua lingua.
“Alla prossima, Carmen”.
Mi giro e con una posa un po’ troppo teatrale, mi avvio verso la mia auto.
Adesso piove più forte, goccioloni gonfi e grandi. Ma continuo ad camminare
piano come a gustarmi ogni passo e ogni pensiero. Come per prolungare la mia
uscita di scena.
Voglio centellinare quel momento. Mi chiedo se la rivedrò più.
Quando arrivo alla macchina, mi volto verso di lei e vedo che è ancora
ferma al muretto, immobile sotto la pioggia insistente e mi guarda.
La osservo anch’io: i capelli
bagnati le cadono sulle spalle. E’ bellissima. Dietro di lei il mare. E in
fondo, si è aperto uno squarcio nel cielo e dei raggi di sole rendono azzurro
quel braccio di mare. Avverto una gioia indicibile e un senso di appagamento
senza fine: come se avessi continuamente un forte desiderio e immediatamente riuscissi
a soddisfarlo.
“In modo o nell’altro faremo, Carmen”, penso.
E stavolta ci credo.
5
“Se permette, le faccio
assaggiare questo ottimo prosecco, mentre aspetta la signora.”.
Il viso del cameriere è
cordiale e colorato da uno spontaneo sorriso.
Ma io non so bene dove mi
trovi e quale signora stia aspettando.
Visto da vicino, il giovane
è indubbiamente vestito da cameriere mentre versa il vino; una camicia bianca
smagliante da far invidia all’uomo in ammollo, una giacca ed un farfallino
neri. Ma quando si allontana dal tavolo, non posso non notare i calzoni
celestini larghi che sembrano pantaloni del pigiama e le pantofole. Normali
ciabatte da casa, anche un po’ consumate. La cosa che mi meraviglia di più è la
sua più completa nonchalance; anche la sua camminata rimane elegante e quasi
marziale.
Mentre il mio viso palesa
tutta la sorpresa, incrocio lo sguardo di una signora con un ampia scollatura
impreziosita da un filo doppio di perle. E lei mi sorride come un adulto
sorride bonario davanti allo stupore di un bimbo. Quella donna, a parte il
vestito elegante, la scollatura e le perle, mi pare zia Maria che mi ha fatto
da tata quando ero piccino. E prima di voltarsi mi fa un lieve cenno d’assenso;
come se, dolcemente burlandosi di me, mi confermasse che è proprio lei.
Ma non può essere. Zia Maria
è morta da tanto e non l’ho mai vista così giovane e bella.
La sala è elegante, tavoli
ricoperti da una doppia tovaglia bianca, posate d’argento, così come d’argento
è il candeliere sul nostro tavolo. Le signore in abito lungo e gli uomini in
giacca e cravatta.
Questo posto è molto
particolare, e non mi ricordo proprio come ci sia finito. E’ strano, un po’
improbabile. Sono smarrito.
La verità è che sembra di
stare in un cartone animato non nel mondo reale. E che ci faccio in un cartone?
Il prosecco è veramente
buono. Scende giù che è un piacere. Mi lascia la bocca profumata e pastosa e mi
rende la testa leggera facendomi immediatamente alzare il tono dell’umore.
Il senso di disorientamento
è scomparso. Continuo a non sapere dove sia, cosa ci faccia in questo posto e
chi stia aspettando, ma mi pare del tutto normale essere qui.
Saranno l’atmosfera serena,
l’aria lieve e tranquilla che sembrano avere tutti, ma mi trovo da dio.
Mi giro intorno per cercare
con lo sguardo il cameriere. Vorrei un altro sorso di prosecco e mi piacerebbe
anche conoscerne la marca. Mi sembra impossibile non averne in casa una
bottiglia o meglio ancora una cassetta. Ma non vedo il cameriere.
In realtà non vedo neanche
le pareti del locale, che sembra immenso. Dovunque volga gli occhi vedo tavoli
e persone sedute. E tutte mi sembrano familiari, tutte sembrano conoscermi e
farmi cenni di saluto. La
Marinella, l’Emanuela, Tino, Gigi e Mary, il professore
Minonne, nonno Luigi e nonna Carmen …
Ma dove sono? Il senso di
stordimento è arricchito adesso da una lieve paura.
Fortunatamente, il bicchiere
di prosecco è pieno di nuovo, anche se non ho sentito il cameriere venire a
riempirlo. Bevo e tutto torna tranquillo. E tutto fantasticamente irreale.
Sicché non mi sorprendo più
di tanto quando la vedo sbucare dal nulla e avvicinarsi al mio tavolo. Anche
lei mi sembra più giovane e carina, con una camicetta beige su una gonna a
campana nera, quando zigzaga sensuale fra i tavoli con la gonna che volteggia
maliziosa.
Lavinia, mia moglie e la
mamma delle mie figlie, si viene a sedere accanto a me.
Ma la cosa più irreale è il
suo viso dolce e affettuoso e il suo sorriso cordiale. Dolce e affettuosa,
almeno con me, non lo è più da tanto. Negli ultimi anni aveva continuamente lo
sguardo torvo e rabbuiato come se fossi continuamente colpevole di qualcosa. E
non potessi mai espiare le mie colpe nemmeno in tutta la vita a venire.
E’ tanto, troppo tempo che
non ci scambiamo un gesto affettuoso, una parola dolce, uno sguardo complice.
Come da tanto, troppo tempo non facciamo né amore né sesso.
Non so se abbia trovato
consolazione in giro. A vederla così carina, mi pare difficile credere che
nessuno si sia fatto avanti. Non sono geloso, per temperamento e per pigrizia.
Per il suo lavoro che la porta spesso a viaggiare avrebbe potuto avere tutte le
occasioni del mondo.
Sono tuttavia convinto che
se avesse avuto un amante quando fosse tornata a casa dopo un loro appassionato
incontro, sarebbe stata ancora più scostante e arrabbiata del solito. Il lemma
“senso di colpa” era forse nella pagina strappata del suo vocabolario.
Ora è seduta di fronte a me
e la sua mano è appoggiata teneramente sulla mia. Il suo sguardo è dolce, le
parole affettuose.
“Ti ricordi come tutto è
cominciato?” mi chiede.
Anche la voce si è fatta più
amabile.
E come potrei dimenticarlo?
13 giugno del 1984. Andavamo
a Roma. Eravamo sul treno speciale che ci portava al funerale di Enrico
Berlinguer. Un lungo convoglio di dolore e tristezza. Sebbene il treno
ribolliva di energia e rabbia, non contro un nemico politico ma contro un
destino crudele, eravamo tutti consapevoli che con il compagno Berlinguer
moriva una stagione meravigliosa di lotte e di cambiamento iniziata nel
sessantotto.
Entrava nella sua breve
agonia la primavera italiana, già duramente colpita dal terrorismo e dal
craxismo.
Io dovevo consegnare la tesi
di laurea proprio in quei giorni. Ero stato in dubbio fino all’ultimo. Ma non
potevo mancare, al costo di perdere la sessione di laurea. Mi sembrava di
doverglielo a Berlinguer, alla mia giovinezza e a quella dell’Italia
Ero in uno scompartimento
con altri universitari e un paio di compagni più grandi. E quando iniziarono a
cantare “Veniamo da lontano, andiam lontano…” il pianto cominciò a gonfiarmi
gli occhi e uscì nel corridoio.
Con la testa fra le braccia
appoggiate al finestrino, guardando scorrere il litorale laziale, lasciai
finalmente libere le lacrime calde di scendere sul viso.
Non l’avevo sentita
arrivare. Fui quindi sorpreso dal vedere la sua testa comparire. Si era piegata
e sinuosamente aveva infilato la sua testa che inaspettatamente era spuntata
fra le mie braccia.
E appoggiò il suo viso sul
mio, lasciando che una lacrima che aveva iniziato su di me il suo viaggio verso
terra lo proseguisse su di lei.
Un’altra lacrima le finì
sulle labbra e la raccolse.
E allora la baciai sulla
bocca e me la ripresi.
Erano settimane che come nel
più classico dei rituali del corteggiamento umano ci ballavamo intorno. Fra
riunioni, manifestazioni, feste nelle case dello studente, concerti era un
continuo inseguirci e cercarci. E ci eravamo trovati proprio sul quel treno,
proprio in quel giorno.
Avevamo bisogno di iniziare
una nuova avventura mentre andavamo assistere alla fine di un’epoca.
“Ma nemmeno tu sai quando è
finita..” continua con una nota di tristezza che compare alla fine della frase.
No, non so quando iniziò a
finire.
Quando ci accorgemmo che il
rapporto era logoro, nascondemmo la testa nella sabbia e sfidando il destino
decidemmo di sposarci. E quando nemmeno questo banale espediente funzionò, come
il più classico dei giocatori d’azzardo, rilanciammo, invece di abbandonare il
tavolo verde. Puntammo tutto e nacquero le nostre figlie.
Ma come al casinò, alla fine
il banco vince sempre. Ed ora siamo al capolinea. Siamo una famiglia, normale
agli occhi dei più, ma alla base di questa famiglia non c’è più una coppia.
No, non so nemmeno quando le
nostre strade iniziarono a separarsi.
Entrambi sorpresi dalla
velocità con la quale il mondo cambiava sotto i nostri occhi, avevamo reagito
in modo diverso. Davanti al naufragio delle nostre speranze di costruire l’uomo
nuovo, io mi ero rifugiato nello studio. Pensavo che quel fallimento fosse anche
dovuto al fatto che la società che volevamo cambiare non l’avessimo studiata a
sufficienza, fossimo stati troppo dogmatici e semplicistici.
Dedicai il mio tempo allo
studio. Rinunciando a guadagnare di più avevo scelto la carriera accademica che
mi avrebbe permesso di continuare a studiare per sempre.
E lei all’inizio
bonariamente mi prendeva in giro dicendo che il mio era solo un volgare trucco
per non crescere, per non lavorare. E mai, infatti, le è sembrato un vero
lavoro, il mio. Le pareva più un hobby, o una mania, quella di passare il
giorno davanti al pc a fare calcoli ed elaborazioni di modelli astratti o a
leggere contorti libri di teoria economica.
Ma per quanto mi impegnassi,
mi pareva che la realtà giocasse con me a nascondino. E all’improvviso tutto
cominciò a sembrarmi inutile e un senso di fallimento e delusione iniziò ad
incrinare il mio innato ottimismo. Non ero più il giovane di cui s’era
innamorata che andava spavaldo a cambiare il mondo.
Lei, invece, da tanto aveva
rinunciato a cambiare il mondo concentrandoti sulla cambiamento del suo posto
nella gerarchia sociale. Si era dedicata anima e corpo alla carriera accettando
compromessi e sacrificando il tempo dei suoi affetti. Il suo conto in banca,
rigorosamente separato dal mio, ben più misero, le stimolava la libido molto di
più di quanto riuscissi a fare io.
A poco a poco abbiamo perso
la stima l’uno dell’altra e non ce ne siamo accorti. E non ci siano parlati. E
non ci siamo capiti. E abbiamo smesso di amarci. E di volerci bene.
La vita ci allontanava e noi
facevamo finta di nulla. E quando abbiamo aperto gli occhi, era oramai troppo
tardi, eravamo troppo lontani per sentirci.
Abbiamo permesso al mondo di
cambiarci e così cambiati non ci siamo più piaciuti.
“Ma adesso tu ed io sappiamo
cosa dobbiamo fare, non è vero?” dice mia moglie.
Io in realtà so cosa voglio
fare. Voglio vivere la mia storia con Carmen senza rinunciare all’amore delle
mie figlie, e per questo devo avere un rapporto civile con Lavinia.
“Dobbiamo gestire in maniera
intelligente la fine del nostro matrimonio. E’ colpa di entrambi se è finito.
Ed era finito ben prima che tu ritrovassi il tuo amore di adolescente, che, se
mi permetti, dimostra ancora una volta di più la tua difficoltà di crescere.
Ora facciamo in modo che le nostre figlie non paghino il prezzo dei nostri
errori. Questo, non ce lo perdonerebbero.”
Sagge le sue parole, con un
retrogusto un po’ didascalico che è sempre appartenuto più a me che a lei. Sono
colpito e le rivolgo un sorriso caldo e affettuoso come da anni non facevo.
“Hai ragione, Lavinia.“
“Penso che se ci separiamo
bene, torneremo a volerci bene e saremo genitori migliori”, aggiungo.
Lei mi sorride e in quel
preciso istante parte la musica. C’è uno spazio libero fra i tavoli che prima
non avevo notato. Mi alzo e le prendo la mano.
“Balliamo” le dico.
E iniziamo a ballare un
valzer allegro. Sembra quasi la scena clou di Cenerentola quando il principe le
prende la mano e nella sala si fa il vuoto intorno a loro.
Devo ballarlo bene se tutti cominciano
ad applaudire soddisfatti.
Siamo tutti felici e
contenti, proprio come nelle favole.
E il ritmo diventa sempre
più veloce e i piedi si muovono sempre più frenetici. La velocità della danza è
sempre più alta. Le altre persone, gli altri tavoli non riesco più a vederli. E
poi tutto scompare. E poi…
E poi mi sveglio….
E poi mi ricordo quel che è
successo in realtà. E vorrei tornare a dormire e rientrare nel sogno.
Quante cattiverie, quante
volgarità, insulti, minacce.
E avrei voluto dirle: “Ma perché
ci fai del male se non mi ami più? Tu puoi costringere qualcuno a star con te
se non ti ama, ma che senso ha costringere qualcuno a stare con te se non lo
ami?”
Ora vorrei cancellare tutto,
ma io non riesco a dimenticare le parole cattive che mi feriscono più dei
pugni.
I sogni belli, sono sempre
stati una disgrazia per me. Da quelli brutti, ti svegli contento: era solo un
sogno, ti dici allegro. Dopo un bel sogno felice che ti ha disegnato una realtà
molto più bella di quello che stai vivendo, ti svegli col rimpianto che sia
stato solo un sogno.
E ti chiedi dove hai
sbagliato e perché la tua vita non è un sogno.
6
“Hanno arrestato Sandro Frisullo”.
Leggo l’sms di Carmen
nell’intervallo della lezione.
Mi manca il tempo di
rispondere sia a lei che a me stesso.
Non è un fulmine a ciel
sereno. Erano diversi mesi che la notizia sul coinvolgimento del parlamentare
del PD in un giro di tangenti nel settore della sanità si erano diffuse e altri
personaggi coinvolti erano stati già arrestati o inquisiti.
Frisullo si era già sospeso
da ogni incarico istituzionale e manteneva un basso profilo.
Alla fine della lezione, me
ne vado in un bar del centro di Grosseto dove di solito mi fermo a prendere un
panino, quando son solo.
Questa volta aggiungo al
panino una birra, al posto della classica coca. Voglio bere per ricordare.
“Ma che ti è successo
Sandro? Come è potuta finire a puttane, e non solo metaforicamente, la tua
vita?”
L’avevo conosciuto che avevo
15 anni e lui era qualche anno più grande di me. Era il segretario provinciale
della FGCI di Lecce. L’avevo subito apprezzato. Entusiasmo, capacità di
analisi, doti organizzative, forza di volontà.
Anni dopo quando facevo
l’ultimo anno del liceo ed ero diventato uno dei dirigenti provinciali della
FGCI, lui era vicesegretario del partito. Per noi giovani della FGCI era il punto
di riferimento. Lui cercammo subito la notte che ci stavano sparando.
Spesso organizzavamo delle
iniziative politiche insieme.
Mi ricordo ancora di una
volta che andammo a Maglie per parlare di agricoltura con Pio La Torre, pochi anni prima che
venisse barbaramente ucciso dalla mafia.
Avrei dovuto parlare dei giovani
e l’agricoltura. Io ragazzino borghese di piazza Mazzini di agricoltura non
sapevo niente e anche le galline mi spaventavano.
Sandro mi disse di non
preoccuparmi: era sicuro che avrei trovato qualcosa di interessante da dire. E
così fu.
Tornammo in macchina a Lecce
insieme. Io seduto sul sedile posteriore, li sentivo discutere di politica e
ogni tanto riuscivo a dire anch’io qualcosa.
Ero orgoglioso di essere lì,
insieme ad un compagno che aveva lottato per i diritti dei braccianti siciliani
rischiando non poco visto quello che era accaduto a Portella della Ginestra e
che ora si batteva contro la
Mafia rischiando ancora di più. Destinato da lì a poco a
perdere tutto.
Pio La Torre, Amendola, Nenni,
Berlinguer, Pertini e tanti altri, dove siete andati, perché ci avete lasciato
soli?
Sarà che vi siete portati
via la mia adolescenza, sarà che ho nostalgia di quando era facile distinguere
fra buoni e cattivi, sarà che non mi piace vivere in mondo che ha perso la
speranza di cambiare, sarà solo che sto invecchiando, ma mi mancate tanto.
Non mi piace vivere in un
Paese che sembra diventare ogni giorno più cinico e cattivo, dove le persone
vengono valutate solo con il metro del successo e del denaro. Io non mi adatto,
non riesco ad adeguarmi, non mi trovo bene. Voglio tornare agli anni settanta,
dove si viveva per cambiare e non si cambiava per vivere.
Spunta una bella donna
all’inizio della strada. Ha un viso dolce e un luminoso sorriso, un naso
leggermente all’insù e lunghi capelli neri. Passa davanti al bar, con un
vestito a tubo nero che le fa risaltare il suo bel culo. Un viso dolce, un culo
provocante, il massimo. Mi piace.
Se la mia vita fosse un
romanzo, la donna verrebbe a sedersi nel tavolino acconto al mio e io troverei
il coraggio di flirtare e riuscirei a sedurla trovando quelle parole intriganti
e spiritose che la farebbero incuriosire e divertire. E forse potrei dimenticare
il presente.
E se la mia vita fosse un
film erotico, la donna mi inviterebbe a casa sua. E faremmo un amore frenetico
subito chiusa la porta di casa. Appoggiata sulla spalliera di un divano di
pelle bordò, la prenderei con violenta passione per scacciare quest’angoscia
che mi tormenta.
E se lo sceneggiatore fosse
con me particolarmente benevolo sovrastimando le mie capacità amatorie, lo
rifaremmo ancora subito dopo; lenti e dolci questa volta. Nell’ultimo vano
tentativo di ingannare il tempo e sconfiggere la nostalgia galleggiando quieti
nel mare di un amplesso senza fine.
Ma la mia vita mai è stata
film, e il bel culo sparisce dietro l’angolo portandosi via con sé ogni
speranza di uscire dal mio loop d’inquietudine. E mi ritrovo di nuovo a vagare
nel passato.
Pochi mesi prima della mia
maturità, Sandro mi convocò un pomeriggio per dirmi che Luigi, il nostro
segretario provinciale era in lizza per diventare segretario regionale della
FGCI e stavano pensando a me per andare al suo posto. Avrei ricevuto uno
stipendio per fare quello che più mi piaceva fare, politica.
Passai due settimane nella
massima incertezza. Fino ad allora il mio progetto era di andarmene via da
Lecce, a studiare Economia all’Università.
I miei genitori non avrebbe
apprezzato se fossi rimasto a Lecce a lavorare, quasi sicuramente smettendo di
studiare, per diventare un politico di professione. Ma se io l’avessi voluto
veramente fare, non si sarebbe opposti, ne son sicuro.
Ero combattuto e non sapevo
cosa fare. La proposta mi lusingava e mi attraeva, ma non ero del tutto
convinto che quella fosse la mia strada.
Alla fine, non dovetti mai
decidere. A Luigi fu preferito un compagno di Bari e Sandro mi disse che se fossi
rimasto a Lecce prima o poi il segretario sarei stato io.
Invece me ne andai e mi
iscrissi al corso di laurea di Scienze Economiche dell’Università di Siena.
Adesso, seduto da solo in un
bar al centro di Grosseto, mentre mi bevo la seconda birra, mi chiedo quale
sarebbe stata la mia vita se le cose fossero andate diversamente e avessi
accettato di fare il segretario provinciale della FGCI di Lecce, iniziando una
carriera di politico di professione.
E la domanda delle cento
pistole arriva ineludibile.
Sarei diventato un
politicante senza scrupoli che fa di tutto per rimanere a galla e per
conservare quel potere da cui dipende come un tossico?
Lentamente sarei cambiato
anch’io, accettando prima qualche piccolo compromesso morale in nome del
realismo politico, per poi inevitabilmente sprofondare sempre più in basso
finendo per perdere ogni ritegno e regola etica?
E come mi sarei giustificato
la mattina davanti allo specchio o la sera subito prima di addormentarmi quanto
tutti ci troviamo soli con i nostri pensieri? Con il cinico “così fan tutti”, o
con il più ipocrita “gli altri farebbero peggio”?
E magari adesso il caffè,
ordinato doppio per smaltire le due birre, lo starei sorbendo in prigione,
magari a“li Bobò”, il vecchio carcere
leccese.
7
“Ehi, beddhazza, ce sta
faci?”
E’ così che, con la voce più
allegra che riesca ad impostare, saluto mia mamma quando mi risponde al
telefono.
“Stavo cercando la roba
dentro, per metterla fuori che poi è la nostra che va rimessa dentro perché è
l’ultimo. Non sai, togli la roba più forte e metti la cosa più facile, che poi
si trovano e poi si mettono, perché non si può stare con la roba che c’era
prima, che è finito”
E così che mi risponde oggi,
il primo giorno di primavera effettiva che il clima senese regala alla metà di
maggio.
Non è mai facile capire ciò
che dice e quando la comunicazione è solo verbale diventa veramente complicato.
Ormai ricorda un numero
sempre più ridotto di parole, e ovviamente pochissimi nomi propri. “Nostro” in
tutte le sue declinazioni, “dentro”, “fuori”, “forte” e “facile” sono le più gettonate.
Se deve parlarmi di una
persona, mi dice:
“Ma non hai capito: la
nostra”.
Ma “la nostra” può essere
chiunque, una delle due persone che l’aiutano, dormendo e passando una certa
parte della giornata insieme con lei, una delle vicine di casa e tante altre ancora.
Nostro è il pronome che usa
di più. La sua mente si aggrappa al pronome più inclusivo, quello che più di
tutti ti fa sentire parte di un gruppo, in un momento nel quale per l’età,
quasi novant’anni, e per i suoi problemi di memoria si sente esclusa dal giro.
A volte riesco a comprendere
a pieno quello che voleva dire solo dopo che ho chiuso il telefono, quando con
calma riesamino più attentamente il suo discorso, che non è mai illogico. Ma
non sempre ho il tempo e, confesso, la voglia, di farlo.
Oggi ad esempio mi ha detto
che sta facendo quello che volgarmente viene definito il cambio di stagione dei
suoi vestiti riponendo le cose più pesanti e ripescando dall’armadio i capi più
leggeri.
Se la temperatura si è
sensibilmente alzata a Siena, figuriamoci a Lecce e anche un’inguaribile
freddolosa come lei avrà avuto voglia di mettersi qualcosa di più intonato alla
stagione.
Si sente sola la mia mamma.
Era la più grande di sette figli di una famiglia borghese con il papà
cancelliere capo del tribunale di Lecce e la mamma appartenente ad una ricca
famiglia di commercianti che in poco tempo riuscirono a perdere tutto quello
che avevano, per cui spesso mio nonno era costretto ad aiutare i suoi cognati e
le sue sorelle che se li erano sposati.
Le due famiglie erano
irrimediabilmente intrecciate, perché mio nonno e le sue due sorelle si erano
maritati proprio con mia nonna e i suoi due fratelli.
Mia mamma è stata abituata a
vivere in una famiglia numerosa, dove “i nostri e le nostre” sono stati sempre
tanti.
Ora è rimasta sola. Quattro
dei suoi fratelli sono morti nel giro di una decina d’anni e i due rimasti, una
sorella e un fratello, vivono entrambi molto lontani da Lecce. Pochi mesi fa è
morto anche mio padre, il suo compagno di tutta la vita.
Si sente sola la mia mamma e
triste di essere sola.
Anche quando siamo tutti
insieme a Lecce, non mi sembra del tutto serena. La vita con le mie figlie
adolescenti e qualche volta mio nipote procede troppo velocemente per i suoi
ritmi e spesso, lo avverto, si sente in ritardo e arranca cercando
disperatamente di afferrare meglio quello che le accade intorno.
Eppure non è stato sempre
così. Mia mamma è stata una donna libera di grande personalità che non si è mai
fatta rinchiudere nel cliché della donna meridionale nata negli anni venti del
secolo scorso.
Amava la matematica e la
fisica e si iscrisse all’Università di
Napoli in piena guerra mondiale, quando i suoi genitori e principalmente
sua mamma avrebbero preferito una materia più femminile e un’università più vicina,
se proprio voleva continuare a studiare.
Fu la prima donna salentina
a laurearsi brillantemente in matematica teorica.
Per amore dei suoi fratelli
che avevano bisogno di un aiuto economico per potersi a loro volta laureare se
ne tornò a casa a lavorare rinunciando ad intraprendere la carriera accademica
e dando un profondo dispiacere a Renato Caccioppoli, geniale matematico
partenopeo, che di lei era intellettualmente e magari non solo
intellettualmente, profondamente invaghito.
In tutta la facoltà di
Napoli erano celebri i suoi appunti delle lezioni di Caccioppoli che oltre alla
fama di genio pazzoide della matematica aveva anche quella di massacratore di
studenti all’esame.
“Se vuoi avere speranze di
superare l’esame, copiati gli appunti della Rita." Era la voce che
circolava in facoltà.
La notizia giunse
all’orecchio di un giovane studente avellinese, Alfredo, appena trasferitosi da
Ingegneria. Aveva fretta di laurearsi, stava con una ragazza con cui voleva al
più presto convolare a giuste nozze e si rivolse a mia mamma per farsi prestare
i famosi appunti.
Ma quegli appunti e il
sorriso della ragazza che glieli porse cambiarono il corso della sua vita
facendo naufragare i suoi imminenti propositi matrimoniali e iniziando il lento
percorso che condusse poi, diversi anni dopo, alla mia nascita.
Il momento del loro primo
incontro: è una storia che mio padre raccontava spesso, da inguaribile
romantico qual’era. Gli avevano detto che questa Rita era una ragazza carina,
ma quando la vide con quei lunghi capelli castani lievemente mossi, grandi
occhi verdi, labbra rosse e carnose che coloravano un sorriso luminoso, gambe
lunghe che si intravedevano sotto la gonna scozzese, capì che si sbagliavano
non era carina era proprio bella.
Quanto darei per poter vedere
la scena, per essere dentro i loro pensieri quando si guardavano, per respirare
gli stessi profumi che respiravano loro, sentire gli stessi rumori, provare le
stesse emozioni.
Da quel giorno Alfredo tornò
spesso da Rita con la scusa di farsi meglio spiegare alcune parti degli appunti
che sosteneva di non aver capito.
L’ennesima volta che andò,
lei lo accolse con un sorriso caldo ma un voce di rimprovero.
“Di nuovo qua stai, Alfredo?
E che c’è stavolta?”
“E che c’è questo passaggio
che non capisco....Forse qui c’è un errore, dovrebbe essere meno...”
“Non è possibile, non ci
credo, non ci sono errori.”
“Ti dico di si”
“E io ti dico che ti sbagli”
“Senti, facciamo una
scommessa. Se ho ragione, accetti di venire a mangiarti una pizza a
spaccanapoli con me”
“Va bene; tanto errori non
ce ne sono”.
Rifecero insieme i passaggi
e si scoprì che mio padre aveva ragione, c’era uno stupido cambio di segno, un
più al posto del meno, nel penultimo passaggio che produceva un risultato con
il segno sbagliato.
Andarono a prendersi la
pizza insieme e fu la prima di tante, infinite pizze che mangiarono insieme.
Anche quando si sposarono e si trasferirono a Lecce, le rare volte che andavano
fuori da soli non andavano quasi mai a ristorante ma sempre in pizzeria.
Tempo dopo quando ero
lontano all’università e telefonavo verso le otto o le nove e non trovavo
nessuno, sapevo dov’erano andati. A mangiare una pizza.
Quando mio padre fu
ricoverato in ospedale per quello che sembrava un piccolo infarto facilmente
superato e che necessitava solo di un ricovero precauzionale, lui salutò Rita e
le disse.
“Ho visto che hanno aperto
una bella pizzeria, proprio sotto la vecchia casa di tua mamma, Rita, in vicolo
dei Mocenigo. E’ una roba da giovani, con musica pessima, ma ci possiamo accontentare.
E poi è nel cortile dove giocavi da bambina”.
In quella pizzeria non
andarono mai. Alfredo nella notte morì. Ma a me piace pensare, con quel
romanticismo melodrammatico ereditato da lui, che, quando si rivedranno, non
potrà che essere alla pizzeria San Pietro in via del Paradiso.
Alcuni mesi dopo la loro
prima pizza e poco prima che mia mamma portasse Alfredo a Lecce per fargli
conoscere la sua famiglia, seduti su di una panchina sotto il maschio angioino,
mio padre confessò.
“Ho imbrogliato. Ho falsificato
gli appunti, non c’era nessun errore. Ho cambiato io il segno trasformando un
meno in più.”
“Alfredo, io quegli appunti
li conosco come le mie tasche. Me n’ero accorta che avevi cambiato il segno. Ma
tu venivi, venivi e non ti decidevi mai a farti avanti. Se non lo cambiavi tu
il segno, l’avrei cambiato io”.
Quanto mi piacerebbe essere,
non visto, nella grande stanza d’ingresso della casa dei miei nonni quando
arrivò mio padre e fu accolto da quella famiglia con la quale avrebbe poi
passato il resto della sua vita. In quella stessa stanza quasi trent’anni dopo,
io e i miei cugini montammo un canestro e andavamo la sera dopo cena a giocare
a basket insieme a qualche amico, sfidandoci in lunghi tornei 2 contro 2.
Al contrario di mia mamma,
Alfredo non era abituato alle famiglie numerose. Era figlio unico, figlio di
figlio unico e aveva pochi cugini anche per parte di madre. Suo padre fascista
ante-marcia aveva perduto entrambi i piedi nella prima guerra mondiale e morì
che lui aveva poco più di 14 anni lasciandolo solo con la nonna.
E immagino che fosse del
tutto impreparato ad affrontare la curiosità, per non dire la gelosia, dei miei
zii pronti a ricevere a modo loro il fidanzato che la sorella più grande
portava in famiglia. Non oso pensare quante gliele combinarono.
L’unica che mi ha raccontato
riguarda proprio quella prima visita.
Era estate e andarono tutti
al mare. E miei zii lo trascinarono al largo con il pattino.
“Tanto sai nuotare, no,
Alfredo?” dissero.
“Certo” rispose sicuro mio
padre.
Quando furono in alto mare,
tutti si tuffarono ma mio padre rimase sul pattino, inventando le scuse più
astruse per non gettarsi in acqua.
Ma fu impossibile. I
fratelli della sua fidanzata insistevano, gli schizzavano l’acqua addosso, lo
spingevano. Probabilmente avevano capito tutto, ma maliziosamente facevano
finta di nulla.
Lui si buttò, ma rimase
sempre abbracciato ad uno dei galleggianti del natante senza lasciarlo mai,
maledicendo il fatto di aver vantato capacità natatorie che lui, lupo
dell’Irpinia, non possedeva.
Alfredo non sapeva nuotare e
se anche avesse avuto qualche voglia di imparare, quel giorno certo gli passò
definitivamente.
Negli ultimi anni della sua
vita, papà era diventato irrimediabilmente sordo. Di una sordità che si era
dimostrata tetragona a qualsivoglia apparecchio acustico.
Mi viene tristemente da
pensare che se stesse ancora con noi, adesso i miei genitori sarebbe una coppia
da cartone animato: mia mamma che non si fa capire quando parla e mio padre che
non sente nulla.
Ma poi il pensiero si fa
dolce e le labbra mi si allargano in un languido sorriso, quando realizzo che
non ci sarebbe stato nulla di cui
preoccuparsi: in qualche modo quei due si sarebbero intesi.
Spesso mi rendo conto che
mia mamma mi considera oramai più come un padre che come un figlio. E a volte
le scappano dei lapsus quando parlando di me con altri mi definisce suo padre o
si definisce mia figlia. E ogni volta è
una pugnalata al cuore.
Mi consolo pensando che
questo non è altro che il suo ennesimo regalo. Sapeva che per me sarebbe stata
una tragedia perdere la mamma, ed ha abdicato al ruolo di mamma molto prima di
lasciarmi, come se volesse dirmi che non ho più bisogno di una mamma. Di quella
mamma che ti sta vicino al letto quando sei ammalato, che ti supporta quando il
futuro ti sembra nero, che ti consola quando la tua vita matrimoniale è un
disastro. Di quella mamma che c’è sempre qualunque cosa tu faccia e che sarà
dalla tua parte qualunque cosa accada. Ora hai dei figli a cui fare da papà e
una mamma a cui fare da padre.
Vorrei poterle dire, ma mai
lo farò, quanto si sbaglia. Non immagina quanto desidererei oggi una
mamma-mamma. Non ho più paura del buio, non mi spaventano più gli estranei, mi
so stirare una camicia, ho conosciuto intimamente qualche donna, ma vorrei
ancora qualcuno che mi prendesse per mano in questa parte della mia vita e che
fosse in grado di dirmi credibilmente che andrà tutto bene e di non aver paura
del giorno che verrà.
Vorrei ancora poterti
chiedere, mamma, un ultimo bicchiere d’acqua prima che tu vada a dormire.
Vorrei ancora sentire il profumo della crema che ti mettevi sulla pelle prima
di coricarti, vorrei ancora vedere il tuo sorriso dolce e rassicurante con cui
ti congedavi da me riprendendoti il bicchiere vuoto. Vorrei sentire ancora:
“Ora dormi, bimbo mio”.
La suoneria del telefono
cellulare arriva provvidenziale prima di finire definitivamente avvitato in
questa spirale depressiva.
E’ Carmen, la mia Carmen.
“Ciao, cuore”. I cellulari
hanno eliminato la sorpresa e la necessità
di chiedere chi è.
“Ciao, Arturo. Sono a
prendere un caffè davanti al mare dove ci siamo visti l’ultima volta. Dove sei,
tu?”
“Sono in facoltà, fra un po’
torno a casa”.
“Pensavo, Carmen, ci
verresti qualche giorno con me da qualche parte? Ho bisogno di vederti,
dobbiamo stare un po’ insieme. Basta telefoni e mail”
“Arturo, che strano! Sono
giorni che lo penso anch’io, ma non sapevo come dirtelo”
“E allora dimmi solo dove
vuoi andare”
“Trieste, voglio andare a
Trieste. Mi sembra che mi stia chiamando, non ti so dire bene perché, ma è li
che voglio andare”.
Mi risponde di slancio, come
se fosse pronta alla domanda.
“Allora andiamo a Trieste”.
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