Nuovo millennio: seconda parte

4

Scende a tratti una pioggia leggera. Ma c’è tanta luce e il cielo rimane molto luminoso.
Abbiamo deciso di incontrarci al mare di Santa Caterina, dove da ragazzi andavamo a fare il bagno.
Il clima è incredibilmente mite per i primi di gennaio. Il mare con questo tempo è bellissimo: sottocosta accarezza dolcemente gli scogli, all’orizzonte si nasconde sotto il cielo. Canta una canzone dolce, un accompagnamento musicale e visivo al tema della nostra storia. E’ un testimone consapevole, partecipe e discreto.
E’ la prima volta da trent’anni che siamo soli.
Ci guardiamo, ci accarezziamo con gli occhi, ci raccontiamo anni di vita, seduti sul muretto che guarda il mare. Ci narriamo storie vissute parallelamente.
Le racconto di quella volta che mi sembrò di vederla a Bologna, nell’ autunno del 87 o nell’inverno dell’88.
“Beh, era possibile fossi io. In quel periodo passavo parte della settimana a Bologna e abitavo vicino a via Zamboni, dove mi hai visto. Io non mi sono accorta di nulla”.
“Per un paio di mesi, son venuto spesso a Bologna. Chissà cosa sarebbe successo se ci fossimo incontrati”.
E abbiano entrambi il desiderio di scrivere la storia con la fantasia, di chiederci come sarebbero andate le nostre vite, se…
E capiamo delle cose che non avevamo ancora capito.
Mi aveva colpito il fatto che Carmen fosse stata tanto precisa nel dirmi la data della morte del suo papà, come se volesse dirmi qualcosa. E poi grazie alla potenza di internet ho capito. Ho cercato in rete la data precisa dell’attentato di Prima Linea a Siena, il 21 Gennaio 1982. Tutto torna.
“Quando sei venuta a Siena era appena morto il tuo papà”.
“Si. Ero distrutta dal dolore, dai sensi di colpa, per le tante volte che non sono andata a trovarlo. Per il fatto che avevo preso troppo la parte di mia mamma. Per aver rinnegato lui e anche la Grecia. Incazzata contro il destino che non mi aveva permesso di vederlo per l’ultima volta.”
“Lo sai, ho capito che la nostra era una storia speciale, quando in una delle prime mail mi hai raccontato che alla notizia della morte di un tuo amico, eri venuto qui. In realtà stavi dicendo che cercavi me”
“Siamo uguali, Arturo. Io quella volta feci lo stesso: ero alla disperata ricerca di un riparo e  cercai te”.
“Ma perché non mi dicesti nulla, perché la storia delle BR?”
“Io mai ti dissi di aver preso parte all’attentato. Ero in fuga, certo, ma non dalla polizia. Ti avrei detto tutto, quella mattina e ti avrei chiesto di accompagnarmi in Grecia, a salutare mio padre, almeno sulla sua tomba e a chiedergli scusa.”
“E dopo che hai fatto?”
“Come dice quella ad Ecce Bombo, l’ultimo film che abbiamo visto insieme? Ho fatto cose, ho visto gente.  Ma sempre con te nel cuore e nella pelle. Ho avuto delle storie anche importanti. Si lamentavano che non mi lasciavo mai andare fino in fondo, che non ero mai veramente coinvolta. E quando le mie amiche mi parlavano di quanto fossero innamorate, e quando vedevo i loro occhi illuminati quando raccontavano dei loro uomini, io mi chiedevo cosa avessi di diverso, di sbagliato. E poi capivo una cosa semplice: loro non erano te. E mi arrabbiavo con loro, mi arrabbiavo con te e mi arrabbiavo ancora di più con me stessa. Com’era possibile una cosa così?”
“Poi un giorno decisi di fare un falò”.
“Un falò?”
“Era arrivato Saverio, un ragazzo dolce e disponibile che mi offriva quello di cui in quel momento avevo bisogno. Avevo bisogno di "casa", di affetto, di sicurezza. Al contrario degli altri lui non ha preteso l’amore con l’A maiuscola. Anche perché gli ho parlato subito della tua presenza "ingombrante"”.
“Due giorni prima che mi arrivasse la tua cartolina dall’Inghilterra, Saverio, mi aveva chiesto di sposarlo. Volevo dirgli di si, desideravo una vita normale e sapevo che potevo averla solo lontano da te. Allora presi la cartolina, le lettere che ci eravamo scritti da ragazzi, le foto che avevo di te e di noi. Andai nel grande camino di mia mamma. Impilai tutto a formare una pira dove bruciare il tuo ricordo e tornare libera. E allora pensai di avercela fatta.”
“Mi sono spostata e ho riprovato a vivere. Certo avevo rinunciato all’Amore, quello che ti blocca il cuore, quello che ti fa tremare, ma pensavo di essere libera. L'amore non esiste, pensavo, almeno per me: ero come anestetizzata, vivevo tranquilla, avevo amici, interessi, sfogavo la "passione" nel lavoro, nella politica, con amici e parenti. Nell’amore per quello che oramai sentivo il mio Paese, l’Italia, e la mia bellissima città adottiva, Lecce.
Il mio si poteva definire un bel matrimonio tranquillo, penso di essere stata una brava moglie e voglio bene a Saverio. Ero e sono straordinariamente entusiasta di essere mamma di Margherita.
Poi la tua mail: un terremoto, nella testa e nel cuore.
E’ tornato a galla tutto quello che avevo cercato di sommergere e "bruciare".
“E ora sono qui a chiederti cosa vuoi fare.”
“Perché, te lo dico subito, Arturo, se quello che vuoi propormi è una scopata, o come diresti tu che odi il linguaggio volgare, di consolarci dai guai della vita facendo l’amore, magari in macchina di fronte al mare, al nostro mare, ti dico di no. Non ti nascondo che ti desidero, ma non voglio questo”.
E mi prende una mano fra le sue, mi accarezza le dita una ad una.
“Non ci crederai ma io me le ricordo queste mani. Mi ricordo le dita, tutte, una ad una. E le tue labbra…”
Mi sfiora dolcemente le labbra con l’indice prima e poi con il pollice. Mi viene duro e il desiderio aumenta quando vedo che ha gli occhi chiusi. Non riesco a capire se sta naufragando nel  passato o immagina e sogna il futuro.
E allora le racconto della sensazione forte che avevo provato appena l’avevo vista. Il suo amore l’avevo sentito subito, sulla pelle. Sorride quando le racconto la metafora del ciclista e della coperta.
“Ma da quale salita sei reduce? Perché desideri questa coperta calda?”, mi chiede.
“In realtà non lo so, Carmen. Forse sono un reduce e basta. Forse non mi adeguo al tempo che passa, alle cose che cambiano. Forse, semplicemente non sono più orgoglioso di me e di come vivo in questo mondo che ha volte non sento il mio”.
Suona il suo cellulare. Risponde, si scurisce in volto. Si allontana da me e vedo che discute animatamente.
Torna verso di me e mi arrivano le sue ultime parole, “Va bene, sto arrivando”.
“Arturo, devo andare. Era la scuola di Margherita: i ragazzi hanno protestato per un’assemblea che il preside non voleva concedere. Sono volate parole grosse, ora il preside minaccia rapporti e a pochi mesi dalla maturità non è cosa. Hanno urgentemente convocato i genitori. Non posso lasciarla sola. Sono anche rappresentante dei genitori nel consiglio d’Istituto”.
“Non ti preoccupare. Ci rivediamo”.
Prendo la copia del libro di racconti di Carver che le avevo regalato, apro alla prima pagina e le scrivo.
“Io ci sono, tu ci sei. In modo o nell’altro faremo”.
Lo scrivo, ma non so se ci credo.
Le porgo il libro, le prendo una mano, la tiro verso di me, le do un lungo bacio sulla bocca. Riconosco le sue labbra, ritrovo la sua lingua.
“Alla prossima, Carmen”.
Mi giro e con una posa un po’ troppo teatrale, mi avvio verso la mia auto. Adesso piove più forte, goccioloni gonfi e grandi. Ma continuo ad camminare piano come a gustarmi ogni passo e ogni pensiero. Come per prolungare la mia uscita di scena.
Voglio centellinare quel momento. Mi chiedo se la rivedrò più.
Quando arrivo alla macchina, mi volto verso di lei e vedo che è ancora ferma al muretto, immobile sotto la pioggia insistente e mi guarda.
La  osservo anch’io: i capelli bagnati le cadono sulle spalle. E’ bellissima. Dietro di lei il mare. E in fondo, si è aperto uno squarcio nel cielo e dei raggi di sole rendono azzurro quel braccio di mare. Avverto una gioia indicibile e un senso di appagamento senza fine: come se avessi continuamente un forte desiderio e immediatamente riuscissi a soddisfarlo.
“In modo o nell’altro faremo, Carmen”, penso.
E stavolta ci credo.
 
5


“Se permette, le faccio assaggiare questo ottimo prosecco, mentre aspetta la signora.”.
Il viso del cameriere è cordiale e colorato da uno spontaneo sorriso.
Ma io non so bene dove mi trovi e quale signora stia aspettando.
Visto da vicino, il giovane è indubbiamente vestito da cameriere mentre versa il vino; una camicia bianca smagliante da far invidia all’uomo in ammollo, una giacca ed un farfallino neri. Ma quando si allontana dal tavolo, non posso non notare i calzoni celestini larghi che sembrano pantaloni del pigiama e le pantofole. Normali ciabatte da casa, anche un po’ consumate. La cosa che mi meraviglia di più è la sua più completa nonchalance; anche la sua camminata rimane elegante e quasi marziale.
Mentre il mio viso palesa tutta la sorpresa, incrocio lo sguardo di una signora con un ampia scollatura impreziosita da un filo doppio di perle. E lei mi sorride come un adulto sorride bonario davanti allo stupore di un bimbo. Quella donna, a parte il vestito elegante, la scollatura e le perle, mi pare zia Maria che mi ha fatto da tata quando ero piccino. E prima di voltarsi mi fa un lieve cenno d’assenso; come se, dolcemente burlandosi di me, mi confermasse che è proprio lei.
Ma non può essere. Zia Maria è morta da tanto e non l’ho mai vista così giovane e bella.
La sala è elegante, tavoli ricoperti da una doppia tovaglia bianca, posate d’argento, così come d’argento è il candeliere sul nostro tavolo. Le signore in abito lungo e gli uomini in giacca e cravatta.
Questo posto è molto particolare, e non mi ricordo proprio come ci sia finito. E’ strano, un po’ improbabile. Sono smarrito.
La verità è che sembra di stare in un cartone animato non nel mondo reale. E che ci faccio in un cartone?
Il prosecco è veramente buono. Scende giù che è un piacere. Mi lascia la bocca profumata e pastosa e mi rende la testa leggera facendomi immediatamente alzare il tono dell’umore.
Il senso di disorientamento è scomparso. Continuo a non sapere dove sia, cosa ci faccia in questo posto e chi stia aspettando, ma mi pare del tutto normale essere qui.
Saranno l’atmosfera serena, l’aria lieve e tranquilla che sembrano avere tutti, ma mi trovo da dio.
Mi giro intorno per cercare con lo sguardo il cameriere. Vorrei un altro sorso di prosecco e mi piacerebbe anche conoscerne la marca. Mi sembra impossibile non averne in casa una bottiglia o meglio ancora una cassetta. Ma non vedo il cameriere.
In realtà non vedo neanche le pareti del locale, che sembra immenso. Dovunque volga gli occhi vedo tavoli e persone sedute. E tutte mi sembrano familiari, tutte sembrano conoscermi e farmi cenni di saluto. La Marinella, l’Emanuela, Tino, Gigi e Mary, il professore Minonne, nonno Luigi e nonna Carmen …
Ma dove sono? Il senso di stordimento è arricchito adesso da una lieve paura.
Fortunatamente, il bicchiere di prosecco è pieno di nuovo, anche se non ho sentito il cameriere venire a riempirlo. Bevo e tutto torna tranquillo. E tutto fantasticamente irreale.
Sicché non mi sorprendo più di tanto quando la vedo sbucare dal nulla e avvicinarsi al mio tavolo. Anche lei mi sembra più giovane e carina, con una camicetta beige su una gonna a campana nera, quando zigzaga sensuale fra i tavoli con la gonna che volteggia maliziosa.
Lavinia, mia moglie e la mamma delle mie figlie, si viene a sedere accanto a me.
Ma la cosa più irreale è il suo viso dolce e affettuoso e il suo sorriso cordiale. Dolce e affettuosa, almeno con me, non lo è più da tanto. Negli ultimi anni aveva continuamente lo sguardo torvo e rabbuiato come se fossi continuamente colpevole di qualcosa. E non potessi mai espiare le mie colpe nemmeno in tutta la vita a venire.
E’ tanto, troppo tempo che non ci scambiamo un gesto affettuoso, una parola dolce, uno sguardo complice. Come da tanto, troppo tempo non facciamo né amore né sesso.
Non so se abbia trovato consolazione in giro. A vederla così carina, mi pare difficile credere che nessuno si sia fatto avanti. Non sono geloso, per temperamento e per pigrizia. Per il suo lavoro che la porta spesso a viaggiare avrebbe potuto avere tutte le occasioni del mondo.
Sono tuttavia convinto che se avesse avuto un amante quando fosse tornata a casa dopo un loro appassionato incontro, sarebbe stata ancora più scostante e arrabbiata del solito. Il lemma “senso di colpa” era forse nella pagina strappata del suo vocabolario.
Ora è seduta di fronte a me e la sua mano è appoggiata teneramente sulla mia. Il suo sguardo è dolce, le parole affettuose.
“Ti ricordi come tutto è cominciato?” mi chiede.
Anche la voce si è fatta più amabile.
E come potrei dimenticarlo?
13 giugno del 1984. Andavamo a Roma. Eravamo sul treno speciale che ci portava al funerale di Enrico Berlinguer. Un lungo convoglio di dolore e tristezza. Sebbene il treno ribolliva di energia e rabbia, non contro un nemico politico ma contro un destino crudele, eravamo tutti consapevoli che con il compagno Berlinguer moriva una stagione meravigliosa di lotte e di cambiamento iniziata nel sessantotto.
Entrava nella sua breve agonia la primavera italiana, già duramente colpita dal terrorismo e dal craxismo.
Io dovevo consegnare la tesi di laurea proprio in quei giorni. Ero stato in dubbio fino all’ultimo. Ma non potevo mancare, al costo di perdere la sessione di laurea. Mi sembrava di doverglielo a Berlinguer, alla mia giovinezza e a quella dell’Italia
Ero in uno scompartimento con altri universitari e un paio di compagni più grandi. E quando iniziarono a cantare “Veniamo da lontano, andiam lontano…” il pianto cominciò a gonfiarmi gli occhi e uscì nel corridoio.
Con la testa fra le braccia appoggiate al finestrino, guardando scorrere il litorale laziale, lasciai finalmente libere le lacrime calde di scendere sul viso.
Non l’avevo sentita arrivare. Fui quindi sorpreso dal vedere la sua testa comparire. Si era piegata e sinuosamente aveva infilato la sua testa che inaspettatamente era spuntata fra le mie braccia.
E appoggiò il suo viso sul mio, lasciando che una lacrima che aveva iniziato su di me il suo viaggio verso terra lo proseguisse su di lei.
Un’altra lacrima le finì sulle labbra e la raccolse.
E allora la baciai sulla bocca e me la ripresi.
Erano settimane che come nel più classico dei rituali del corteggiamento umano ci ballavamo intorno. Fra riunioni, manifestazioni, feste nelle case dello studente, concerti era un continuo inseguirci e cercarci. E ci eravamo trovati proprio sul quel treno, proprio in quel giorno.
Avevamo bisogno di iniziare una nuova avventura mentre andavamo assistere alla fine di un’epoca.
“Ma nemmeno tu sai quando è finita..” continua con una nota di tristezza che compare alla fine della frase.
No, non so quando iniziò a finire.
Quando ci accorgemmo che il rapporto era logoro, nascondemmo la testa nella sabbia e sfidando il destino decidemmo di sposarci. E quando nemmeno questo banale espediente funzionò, come il più classico dei giocatori d’azzardo, rilanciammo, invece di abbandonare il tavolo verde. Puntammo tutto e nacquero le nostre figlie.
Ma come al casinò, alla fine il banco vince sempre. Ed ora siamo al capolinea. Siamo una famiglia, normale agli occhi dei più, ma alla base di questa famiglia non c’è più una coppia.
No, non so nemmeno quando le nostre strade iniziarono a separarsi.
Entrambi sorpresi dalla velocità con la quale il mondo cambiava sotto i nostri occhi, avevamo reagito in modo diverso. Davanti al naufragio delle nostre speranze di costruire l’uomo nuovo, io mi ero rifugiato nello studio. Pensavo che quel fallimento fosse anche dovuto al fatto che la società che volevamo cambiare non l’avessimo studiata a sufficienza, fossimo stati troppo dogmatici e semplicistici.
Dedicai il mio tempo allo studio. Rinunciando a guadagnare di più avevo scelto la carriera accademica che mi avrebbe permesso di continuare a studiare per sempre.
E lei all’inizio bonariamente mi prendeva in giro dicendo che il mio era solo un volgare trucco per non crescere, per non lavorare. E mai, infatti, le è sembrato un vero lavoro, il mio. Le pareva più un hobby, o una mania, quella di passare il giorno davanti al pc a fare calcoli ed elaborazioni di modelli astratti o a leggere contorti libri di teoria economica.
Ma per quanto mi impegnassi, mi pareva che la realtà giocasse con me a nascondino. E all’improvviso tutto cominciò a sembrarmi inutile e un senso di fallimento e delusione iniziò ad incrinare il mio innato ottimismo. Non ero più il giovane di cui s’era innamorata che andava spavaldo a cambiare il mondo.
Lei, invece, da tanto aveva rinunciato a cambiare il mondo concentrandoti sulla cambiamento del suo posto nella gerarchia sociale. Si era dedicata anima e corpo alla carriera accettando compromessi e sacrificando il tempo dei suoi affetti. Il suo conto in banca, rigorosamente separato dal mio, ben più misero, le stimolava la libido molto di più di quanto riuscissi a fare io. 
A poco a poco abbiamo perso la stima l’uno dell’altra e non ce ne siamo accorti. E non ci siano parlati. E non ci siamo capiti. E abbiamo smesso di amarci. E di volerci bene.
La vita ci allontanava e noi facevamo finta di nulla. E quando abbiamo aperto gli occhi, era oramai troppo tardi, eravamo troppo lontani per sentirci.
Abbiamo permesso al mondo di cambiarci e così cambiati non ci siamo più piaciuti.
“Ma adesso tu ed io sappiamo cosa dobbiamo fare, non è vero?” dice mia moglie.
Io in realtà so cosa voglio fare. Voglio vivere la mia storia con Carmen senza rinunciare all’amore delle mie figlie, e per questo devo avere un rapporto civile con Lavinia.
“Dobbiamo gestire in maniera intelligente la fine del nostro matrimonio. E’ colpa di entrambi se è finito. Ed era finito ben prima che tu ritrovassi il tuo amore di adolescente, che, se mi permetti, dimostra ancora una volta di più la tua difficoltà di crescere. Ora facciamo in modo che le nostre figlie non paghino il prezzo dei nostri errori. Questo, non ce lo perdonerebbero.”
Sagge le sue parole, con un retrogusto un po’ didascalico che è sempre appartenuto più a me che a lei. Sono colpito e le rivolgo un sorriso caldo e affettuoso come da anni non facevo.
“Hai ragione, Lavinia.“
“Penso che se ci separiamo bene, torneremo a volerci bene e saremo genitori migliori”, aggiungo.
Lei mi sorride e in quel preciso istante parte la musica. C’è uno spazio libero fra i tavoli che prima non avevo notato. Mi alzo e le prendo la mano.
“Balliamo” le dico.
E iniziamo a ballare un valzer allegro. Sembra quasi la scena clou di Cenerentola quando il principe le prende la mano e nella sala si fa il vuoto intorno a loro.
Devo ballarlo bene se tutti cominciano ad applaudire soddisfatti.
Siamo tutti felici e contenti, proprio come nelle favole.
E il ritmo diventa sempre più veloce e i piedi si muovono sempre più frenetici. La velocità della danza è sempre più alta. Le altre persone, gli altri tavoli non riesco più a vederli. E poi tutto scompare. E poi…
E poi mi sveglio….
E poi mi ricordo quel che è successo in realtà. E vorrei tornare a dormire e rientrare nel sogno.
Quante cattiverie, quante volgarità, insulti, minacce.
E avrei voluto dirle: “Ma perché ci fai del male se non mi ami più? Tu puoi costringere qualcuno a star con te se non ti ama, ma che senso ha costringere qualcuno a stare con te se non lo ami?”
Ora vorrei cancellare tutto, ma io non riesco a dimenticare le parole cattive che mi feriscono più dei pugni.
I sogni belli, sono sempre stati una disgrazia per me. Da quelli brutti, ti svegli contento: era solo un sogno, ti dici allegro. Dopo un bel sogno felice che ti ha disegnato una realtà molto più bella di quello che stai vivendo, ti svegli col rimpianto che sia stato solo un sogno.
E ti chiedi dove hai sbagliato e perché la tua vita non è un sogno.

 6

“Hanno arrestato Sandro Frisullo”.
Leggo l’sms di Carmen nell’intervallo della lezione.
Mi manca il tempo di rispondere sia a lei che a me stesso.
Non è un fulmine a ciel sereno. Erano diversi mesi che la notizia sul coinvolgimento del parlamentare del PD in un giro di tangenti nel settore della sanità si erano diffuse e altri personaggi coinvolti erano stati già arrestati o inquisiti.
Frisullo si era già sospeso da ogni incarico istituzionale e manteneva un basso profilo.
Alla fine della lezione, me ne vado in un bar del centro di Grosseto dove di solito mi fermo a prendere un panino, quando son solo.
Questa volta aggiungo al panino una birra, al posto della classica coca. Voglio bere per ricordare.
“Ma che ti è successo Sandro? Come è potuta finire a puttane, e non solo metaforicamente, la tua vita?”
L’avevo conosciuto che avevo 15 anni e lui era qualche anno più grande di me. Era il segretario provinciale della FGCI di Lecce. L’avevo subito apprezzato. Entusiasmo, capacità di analisi, doti organizzative, forza di volontà.
Anni dopo quando facevo l’ultimo anno del liceo ed ero diventato uno dei dirigenti provinciali della FGCI, lui era vicesegretario del partito. Per noi giovani della FGCI era il punto di riferimento. Lui cercammo subito la notte che ci stavano sparando.
Spesso organizzavamo delle iniziative politiche insieme.
Mi ricordo ancora di una volta che andammo a Maglie per parlare di agricoltura con Pio La Torre, pochi anni prima che venisse barbaramente ucciso dalla mafia.
Avrei dovuto parlare dei giovani e l’agricoltura. Io ragazzino borghese di piazza Mazzini di agricoltura non sapevo niente e anche le galline mi spaventavano.
Sandro mi disse di non preoccuparmi: era sicuro che avrei trovato qualcosa di interessante da dire. E così fu.
Tornammo in macchina a Lecce insieme. Io seduto sul sedile posteriore, li sentivo discutere di politica e ogni tanto riuscivo a dire anch’io qualcosa.
Ero orgoglioso di essere lì, insieme ad un compagno che aveva lottato per i diritti dei braccianti siciliani rischiando non poco visto quello che era accaduto a Portella della Ginestra e che ora si batteva contro la Mafia rischiando ancora di più. Destinato da lì a poco a perdere tutto.
Pio La Torre, Amendola, Nenni, Berlinguer, Pertini e tanti altri, dove siete andati, perché ci avete lasciato soli?
Sarà che vi siete portati via la mia adolescenza, sarà che ho nostalgia di quando era facile distinguere fra buoni e cattivi, sarà che non mi piace vivere in mondo che ha perso la speranza di cambiare, sarà solo che sto invecchiando, ma mi mancate tanto. 
Non mi piace vivere in un Paese che sembra diventare ogni giorno più cinico e cattivo, dove le persone vengono valutate solo con il metro del successo e del denaro. Io non mi adatto, non riesco ad adeguarmi, non mi trovo bene. Voglio tornare agli anni settanta, dove si viveva per cambiare e non si cambiava per vivere.
Spunta una bella donna all’inizio della strada. Ha un viso dolce e un luminoso sorriso, un naso leggermente all’insù e lunghi capelli neri. Passa davanti al bar, con un vestito a tubo nero che le fa risaltare il suo bel culo. Un viso dolce, un culo provocante, il massimo. Mi piace.
Se la mia vita fosse un romanzo, la donna verrebbe a sedersi nel tavolino acconto al mio e io troverei il coraggio di flirtare e riuscirei a sedurla trovando quelle parole intriganti e spiritose che la farebbero incuriosire e divertire. E forse potrei dimenticare il presente.
E se la mia vita fosse un film erotico, la donna mi inviterebbe a casa sua. E faremmo un amore frenetico subito chiusa la porta di casa. Appoggiata sulla spalliera di un divano di pelle bordò, la prenderei con violenta passione per scacciare quest’angoscia che mi tormenta.
E se lo sceneggiatore fosse con me particolarmente benevolo sovrastimando le mie capacità amatorie, lo rifaremmo ancora subito dopo; lenti e dolci questa volta. Nell’ultimo vano tentativo di ingannare il tempo e sconfiggere la nostalgia galleggiando quieti nel mare di un amplesso senza fine.
Ma la mia vita mai è stata film, e il bel culo sparisce dietro l’angolo portandosi via con sé ogni speranza di uscire dal mio loop d’inquietudine. E mi ritrovo di nuovo a vagare nel passato. 
Pochi mesi prima della mia maturità, Sandro mi convocò un pomeriggio per dirmi che Luigi, il nostro segretario provinciale era in lizza per diventare segretario regionale della FGCI e stavano pensando a me per andare al suo posto. Avrei ricevuto uno stipendio per fare quello che più mi piaceva fare, politica.
Passai due settimane nella massima incertezza. Fino ad allora il mio progetto era di andarmene via da Lecce, a studiare Economia all’Università.
I miei genitori non avrebbe apprezzato se fossi rimasto a Lecce a lavorare, quasi sicuramente smettendo di studiare, per diventare un politico di professione. Ma se io l’avessi voluto veramente fare, non si sarebbe opposti, ne son sicuro.
Ero combattuto e non sapevo cosa fare. La proposta mi lusingava e mi attraeva, ma non ero del tutto convinto che quella fosse la mia strada.
Alla fine, non dovetti mai decidere. A Luigi fu preferito un compagno di Bari e Sandro mi disse che se fossi rimasto a Lecce prima o poi il segretario sarei stato io.
Invece me ne andai e mi iscrissi al corso di laurea di Scienze Economiche dell’Università di Siena.
Adesso, seduto da solo in un bar al centro di Grosseto, mentre mi bevo la seconda birra, mi chiedo quale sarebbe stata la mia vita se le cose fossero andate diversamente e avessi accettato di fare il segretario provinciale della FGCI di Lecce, iniziando una carriera di politico di professione.
E la domanda delle cento pistole arriva ineludibile.
Sarei diventato un politicante senza scrupoli che fa di tutto per rimanere a galla e per conservare quel potere da cui dipende come un tossico?
Lentamente sarei cambiato anch’io, accettando prima qualche piccolo compromesso morale in nome del realismo politico, per poi inevitabilmente sprofondare sempre più in basso finendo per perdere ogni ritegno e regola etica?
E come mi sarei giustificato la mattina davanti allo specchio o la sera subito prima di addormentarmi quanto tutti ci troviamo soli con i nostri pensieri? Con il cinico “così fan tutti”, o con il più ipocrita “gli altri farebbero peggio”?
E magari adesso il caffè, ordinato doppio per smaltire le due birre, lo starei sorbendo in prigione, magari a“li Bobò”, il vecchio carcere leccese.
  
7

 “Ehi, beddhazza, ce sta faci?”
E’ così che, con la voce più allegra che riesca ad impostare, saluto mia mamma quando mi risponde al telefono.
“Stavo cercando la roba dentro, per metterla fuori che poi è la nostra che va rimessa dentro perché è l’ultimo. Non sai, togli la roba più forte e metti la cosa più facile, che poi si trovano e poi si mettono, perché non si può stare con la roba che c’era prima, che è finito”
E così che mi risponde oggi, il primo giorno di primavera effettiva che il clima senese regala alla metà di maggio.
Non è mai facile capire ciò che dice e quando la comunicazione è solo verbale diventa veramente complicato.
Ormai ricorda un numero sempre più ridotto di parole, e ovviamente pochissimi nomi propri. “Nostro” in tutte le sue declinazioni, “dentro”, “fuori”, “forte” e “facile”  sono le più gettonate.
Se deve parlarmi di una persona, mi dice:
“Ma non hai capito: la nostra”.
Ma “la nostra” può essere chiunque, una delle due persone che l’aiutano, dormendo e passando una certa parte della giornata insieme con lei, una delle vicine di casa e tante altre ancora.
Nostro è il pronome che usa di più. La sua mente si aggrappa al pronome più inclusivo, quello che più di tutti ti fa sentire parte di un gruppo, in un momento nel quale per l’età, quasi novant’anni, e per i suoi problemi di memoria si sente esclusa dal giro.
A volte riesco a comprendere a pieno quello che voleva dire solo dopo che ho chiuso il telefono, quando con calma riesamino più attentamente il suo discorso, che non è mai illogico. Ma non sempre ho il tempo e, confesso, la voglia, di farlo.
Oggi ad esempio mi ha detto che sta facendo quello che volgarmente viene definito il cambio di stagione dei suoi vestiti riponendo le cose più pesanti e ripescando dall’armadio i capi più leggeri.
Se la temperatura si è sensibilmente alzata a Siena, figuriamoci a Lecce e anche un’inguaribile freddolosa come lei avrà avuto voglia di mettersi qualcosa di più intonato alla stagione.
Si sente sola la mia mamma. Era la più grande di sette figli di una famiglia borghese con il papà cancelliere capo del tribunale di Lecce e la mamma appartenente ad una ricca famiglia di commercianti che in poco tempo riuscirono a perdere tutto quello che avevano, per cui spesso mio nonno era costretto ad aiutare i suoi cognati e le sue sorelle che se li erano sposati.
Le due famiglie erano irrimediabilmente intrecciate, perché mio nonno e le sue due sorelle si erano maritati proprio con mia nonna e i suoi due fratelli.
Mia mamma è stata abituata a vivere in una famiglia numerosa, dove “i nostri e le nostre” sono stati sempre tanti.
Ora è rimasta sola. Quattro dei suoi fratelli sono morti nel giro di una decina d’anni e i due rimasti, una sorella e un fratello, vivono entrambi molto lontani da Lecce. Pochi mesi fa è morto anche mio padre, il suo compagno di tutta la vita.
Si sente sola la mia mamma e triste di essere sola.
Anche quando siamo tutti insieme a Lecce, non mi sembra del tutto serena. La vita con le mie figlie adolescenti e qualche volta mio nipote procede troppo velocemente per i suoi ritmi e spesso, lo avverto, si sente in ritardo e arranca cercando disperatamente di afferrare meglio quello che le accade intorno.
Eppure non è stato sempre così. Mia mamma è stata una donna libera di grande personalità che non si è mai fatta rinchiudere nel cliché della donna meridionale nata negli anni venti del secolo scorso.
Amava la matematica e la fisica e si iscrisse all’Università di  Napoli in piena guerra mondiale, quando i suoi genitori e principalmente sua mamma avrebbero preferito una materia più femminile e un’università più vicina, se proprio voleva continuare a studiare.
Fu la prima donna salentina a laurearsi brillantemente in matematica teorica.
Per amore dei suoi fratelli che avevano bisogno di un aiuto economico per potersi a loro volta laureare se ne tornò a casa a lavorare rinunciando ad intraprendere la carriera accademica e dando un profondo dispiacere a Renato Caccioppoli, geniale matematico partenopeo, che di lei era intellettualmente e magari non solo intellettualmente, profondamente invaghito.
In tutta la facoltà di Napoli erano celebri i suoi appunti delle lezioni di Caccioppoli che oltre alla fama di genio pazzoide della matematica aveva anche quella di massacratore di studenti all’esame.
“Se vuoi avere speranze di superare l’esame, copiati gli appunti della Rita." Era la voce che circolava in facoltà.
La notizia giunse all’orecchio di un giovane studente avellinese, Alfredo, appena trasferitosi da Ingegneria. Aveva fretta di laurearsi, stava con una ragazza con cui voleva al più presto convolare a giuste nozze e si rivolse a mia mamma per farsi prestare i famosi appunti.
Ma quegli appunti e il sorriso della ragazza che glieli porse cambiarono il corso della sua vita facendo naufragare i suoi imminenti propositi matrimoniali e iniziando il lento percorso che condusse poi, diversi anni dopo, alla mia nascita.
Il momento del loro primo incontro: è una storia che mio padre raccontava spesso, da inguaribile romantico qual’era. Gli avevano detto che questa Rita era una ragazza carina, ma quando la vide con quei lunghi capelli castani lievemente mossi, grandi occhi verdi, labbra rosse e carnose che coloravano un sorriso luminoso, gambe lunghe che si intravedevano sotto la gonna scozzese, capì che si sbagliavano non era carina era proprio bella.
Quanto darei per poter vedere la scena, per essere dentro i loro pensieri quando si guardavano, per respirare gli stessi profumi che respiravano loro, sentire gli stessi rumori, provare le stesse emozioni.
Da quel giorno Alfredo tornò spesso da Rita con la scusa di farsi meglio spiegare alcune parti degli appunti che sosteneva di non aver capito.
L’ennesima volta che andò, lei lo accolse con un sorriso caldo ma un voce di rimprovero.
“Di nuovo qua stai, Alfredo? E che c’è stavolta?”
“E che c’è questo passaggio che non capisco....Forse qui c’è un errore, dovrebbe essere meno...”
“Non è possibile, non ci credo, non ci sono errori.”
 “Ti dico di si”
“E io ti dico che ti sbagli”
“Senti, facciamo una scommessa. Se ho ragione, accetti di venire a mangiarti una pizza a spaccanapoli con me”
“Va bene; tanto errori non ce ne sono”.
Rifecero insieme i passaggi e si scoprì che mio padre aveva ragione, c’era uno stupido cambio di segno, un più al posto del meno, nel penultimo passaggio che produceva un risultato con il segno sbagliato.
Andarono a prendersi la pizza insieme e fu la prima di tante, infinite pizze che mangiarono insieme. Anche quando si sposarono e si trasferirono a Lecce, le rare volte che andavano fuori da soli non andavano quasi mai a ristorante ma sempre in pizzeria.
Tempo dopo quando ero lontano all’università e telefonavo verso le otto o le nove e non trovavo nessuno, sapevo dov’erano andati. A mangiare una pizza.
Quando mio padre fu ricoverato in ospedale per quello che sembrava un piccolo infarto facilmente superato e che necessitava solo di un ricovero precauzionale, lui salutò Rita e le disse.
“Ho visto che hanno aperto una bella pizzeria, proprio sotto la vecchia casa di tua mamma, Rita, in vicolo dei Mocenigo. E’ una roba da giovani, con musica pessima, ma ci possiamo accontentare. E poi è nel cortile dove giocavi da bambina”.
In quella pizzeria non andarono mai. Alfredo nella notte morì. Ma a me piace pensare, con quel romanticismo melodrammatico ereditato da lui, che, quando si rivedranno, non potrà che essere alla pizzeria San Pietro in via del Paradiso.
Alcuni mesi dopo la loro prima pizza e poco prima che mia mamma portasse Alfredo a Lecce per fargli conoscere la sua famiglia, seduti su di una panchina sotto il maschio angioino, mio padre confessò.
“Ho imbrogliato. Ho falsificato gli appunti, non c’era nessun errore. Ho cambiato io il segno trasformando un meno in più.”
“Alfredo, io quegli appunti li conosco come le mie tasche. Me n’ero accorta che avevi cambiato il segno. Ma tu venivi, venivi e non ti decidevi mai a farti avanti. Se non lo cambiavi tu il segno, l’avrei cambiato io”.
Quanto mi piacerebbe essere, non visto, nella grande stanza d’ingresso della casa dei miei nonni quando arrivò mio padre e fu accolto da quella famiglia con la quale avrebbe poi passato il resto della sua vita. In quella stessa stanza quasi trent’anni dopo, io e i miei cugini montammo un canestro e andavamo la sera dopo cena a giocare a basket insieme a qualche amico, sfidandoci in lunghi tornei 2 contro 2.
Al contrario di mia mamma, Alfredo non era abituato alle famiglie numerose. Era figlio unico, figlio di figlio unico e aveva pochi cugini anche per parte di madre. Suo padre fascista ante-marcia aveva perduto entrambi i piedi nella prima guerra mondiale e morì che lui aveva poco più di 14 anni lasciandolo solo con la nonna.
E immagino che fosse del tutto impreparato ad affrontare la curiosità, per non dire la gelosia, dei miei zii pronti a ricevere a modo loro il fidanzato che la sorella più grande portava in famiglia. Non oso pensare quante gliele combinarono.
L’unica che mi ha raccontato riguarda proprio quella prima visita.
Era estate e andarono tutti al mare. E miei zii lo trascinarono al largo con il pattino.
“Tanto sai nuotare, no, Alfredo?” dissero.
“Certo” rispose sicuro mio padre.
Quando furono in alto mare, tutti si tuffarono ma mio padre rimase sul pattino, inventando le scuse più astruse per non gettarsi in acqua.
Ma fu impossibile. I fratelli della sua fidanzata insistevano, gli schizzavano l’acqua addosso, lo spingevano. Probabilmente avevano capito tutto, ma maliziosamente facevano finta di nulla. 
Lui si buttò, ma rimase sempre abbracciato ad uno dei galleggianti del natante senza lasciarlo mai, maledicendo il fatto di aver vantato capacità natatorie che lui, lupo dell’Irpinia, non possedeva.
Alfredo non sapeva nuotare e se anche avesse avuto qualche voglia di imparare, quel giorno certo gli passò definitivamente.
Negli ultimi anni della sua vita, papà era diventato irrimediabilmente sordo. Di una sordità che si era dimostrata tetragona a qualsivoglia apparecchio acustico.
Mi viene tristemente da pensare che se stesse ancora con noi, adesso i miei genitori sarebbe una coppia da cartone animato: mia mamma che non si fa capire quando parla e mio padre che non sente nulla.
Ma poi il pensiero si fa dolce e le labbra mi si allargano in un languido sorriso, quando realizzo che non ci sarebbe stato nulla di cui  preoccuparsi: in qualche modo quei due si sarebbero intesi.
Spesso mi rendo conto che mia mamma mi considera oramai più come un padre che come un figlio. E a volte le scappano dei lapsus quando parlando di me con altri mi definisce suo padre o si definisce mia figlia.  E ogni volta è una pugnalata al cuore.
Mi consolo pensando che questo non è altro che il suo ennesimo regalo. Sapeva che per me sarebbe stata una tragedia perdere la mamma, ed ha abdicato al ruolo di mamma molto prima di lasciarmi, come se volesse dirmi che non ho più bisogno di una mamma. Di quella mamma che ti sta vicino al letto quando sei ammalato, che ti supporta quando il futuro ti sembra nero, che ti consola quando la tua vita matrimoniale è un disastro. Di quella mamma che c’è sempre qualunque cosa tu faccia e che sarà dalla tua parte qualunque cosa accada. Ora hai dei figli a cui fare da papà e una mamma a cui fare da padre.
Vorrei poterle dire, ma mai lo farò, quanto si sbaglia. Non immagina quanto desidererei oggi una mamma-mamma. Non ho più paura del buio, non mi spaventano più gli estranei, mi so stirare una camicia, ho conosciuto intimamente qualche donna, ma vorrei ancora qualcuno che mi prendesse per mano in questa parte della mia vita e che fosse in grado di dirmi credibilmente che andrà tutto bene e di non aver paura del giorno che verrà.
Vorrei ancora poterti chiedere, mamma, un ultimo bicchiere d’acqua prima che tu vada a dormire. Vorrei ancora sentire il profumo della crema che ti mettevi sulla pelle prima di coricarti, vorrei ancora vedere il tuo sorriso dolce e rassicurante con cui ti congedavi da me riprendendoti il bicchiere vuoto. Vorrei sentire ancora:
“Ora dormi, bimbo mio”.
La suoneria del telefono cellulare arriva provvidenziale prima di finire definitivamente avvitato in questa spirale depressiva.
E’ Carmen, la mia Carmen.
“Ciao, cuore”. I cellulari hanno eliminato la sorpresa  e la necessità di chiedere chi è.
“Ciao, Arturo. Sono a prendere un caffè davanti al mare dove ci siamo visti l’ultima volta. Dove sei, tu?”
“Sono in facoltà, fra un po’ torno a casa”.
“Pensavo, Carmen, ci verresti qualche giorno con me da qualche parte? Ho bisogno di vederti, dobbiamo stare un po’ insieme. Basta telefoni e mail”
“Arturo, che strano! Sono giorni che lo penso anch’io, ma non sapevo come dirtelo”
“E allora dimmi solo dove vuoi andare”
“Trieste, voglio andare a Trieste. Mi sembra che mi stia chiamando, non ti so dire bene perché, ma è li che voglio andare”.
Mi risponde di slancio, come se fosse pronta alla domanda.
“Allora andiamo a Trieste”.

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