Lecce: anni settanta



1,5,7,12… fatto. Prendo un’altra scheda.
E’ noioso scrivere a mano le schede di propaganda elettorale.
Alzo lo sguardo e mi consolo guardando dalla finestra la facciata della chiesa di Santa Chiara, uno dei tanti capolavori barocchi della mia città.
Sono un po’ nervoso e non tanto per il caldo. Al caldo sono abituato e d’altra parte siamo a Lecce alle 2 del pomeriggio del 12 giugno 1976.
Nella sezione Antonio Gramsci del PCI ci siamo solo noi due. Il 20 ci saranno le elezioni politiche e siamo nel culmine della campagna elettorale.
1,5,7,12 … la mia calligrafia è poco elegante e non solo per la tediosità dell’operazione; è un lavoro sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo.
Lo facciamo tutti a turno, anche gli iscritti al partito e perfino il segretario della sezione, Giancarlo Martelli.
Questa è la campagna elettorale più importante dal 1948. Il PCI rischia di diventare il primo partito italiano e la storia d’Italia potrebbe cambiare.
Dalle elezioni regionali del 15 giugno dell’anno scorso, un vento di cambiamento sembra scuotere tutto il Paese da nord a sud, e io ci sono dentro, con l’orgoglio di far parte di un movimento che sta cambiando il mondo per farlo più bello e più giusto.
Mi sembra che la mia giovinezza, con i miei 17 anni, coincida con quella del mondo. Ho la sensazione che il mondo si aspetti che siamo noi giovani a farlo più bello.
1,5,7,12… in verità, se la mia calligrafia non è perfetta, se la mia penna sbava è anche colpa sua. Siamo soli in sezione perché è presto e fa caldo e poi, detto fra noi, io ho manovrato le cose perché così fosse. La sua quartina è precisa ed elegante, le cifre chiare e ben distanziate. A volte si prende il vezzo di scrivere i nomi al posto dei numeri, sicché la quartina diventa Reichlin, Casalino, Conchiglia...
Ma le sue dita son ben più belle delle cifre che disegnano, la sua mano è più bella delle sue dita, il suo viso è più bello delle sue mani.
Dovreste vedere il suo sguardo che è più dolce di qualsiasi piatto di purchedduzzi. Non privo di un ombra di leggera malizia; questa, spero voi non la vediate; vorrei fosse solo mia. Vi posso al massimo far vedere il sorriso che vi scalderebbe anche se foste al Polo Nord; e riesce a rinfrescarmi l’anima in questo caldo pomeriggio d’inizio estate.
Carmen. Carmen, anche il nome è dolce e malizioso. Carmen, come mia nonna. Ma non è spagnola e, d’altra parte, nemmeno mia nonna lo era. E’ greca, Carmen.
La sua famiglia è fuggita dal regime dei colonnelli che sette anni fa avevano instaurato una dittatura fascista nel Paese. Il papà, membro influente del partito comunista greco, il KKE, è stato accolto in Italia dove ha vissuto con l’aiuto del PCI. Scelse di stare a Lecce e non lo ringrazierò mai abbastanza per questo, perché da Otranto con un motoscafo potente si arriva in poche ore in Grecia, come sanno bene i nostri contrabbandieri.
E lui andava spesso in Grecia per organizzare la lotta clandestina al regime dei colonnelli. Carmen mi ha spesso raccontato come fosse preoccupata tutte le volte che suo padre partiva per la Grecia, aveva paura che la polizia del regime l’arrestasse e lo facesse sparire, com’era successo a suo zio.
Cristina era meno preoccupata della figlia dei frequenti ritorni in patria del marito; sapeva, andava spesso dicendo orgogliosa, cosa volesse dire essere la moglie di un comunista che lotta per la libertà.
In realtà si sbagliava e qualche motivo di preoccupazione in più l’avrebbe dovuto avere e non per i pericoli della polizia segreta.
Nei suoi viaggi il marito aveva allacciato una relazione con una donna greca, membro del Pasok, il partito socialista greco. Quando lo scorso anno il regime dei colonnelli è imploso ed è arrivato il momento di tornare in patria, il marito non ha più potuto continuare la doppia vita, ha confessato tutto e ha chiesto il divorzio. La mamma di Carmen, a questo punto, non ha voluto tornare in Grecia ed ha deciso di rimanere in Italia.
Con i soldi che le ha dato il marito e in società con un’amica ha aperto la Libreria Rinascita, vicino alla federazione del PCI. Viva la democrazia, viva l’Italia, viva l’amore.
1,5,7,12. Ho brigato perché fossimo soli, io e lei; c’è un mio amico che è rimasto giù, nel portone, allo scopo di allontanare con una scusa altri compagni che dovessero presentarsi in anticipo.
Ma adesso non so che fare: non ho preparato nessun piano d’azione. Non che non abbia avuto qualche esperienza, intendiamoci, anzi ho avuto delle belle storie in passato. Sono simpatico e spigliato, ma mi incernio nel momento in cui bisogna fare l’ultimo passo. La mia squadra si perde all’ultimo passaggio, direbbe Gianni Brera parlando di calcio.
1,5,7,12. Ripetendo come un mantra la quartina famosa, decido di alzarmi e darle un bacio, così, all’improvviso. Nei film succede spesso e generalmente le cose vanno bene.
Mi alzo e le vado vicino, fosse anche solo per sentire il suo profumo. Appoggio una mano sul tavolo vicino a lei e la guardo mentre scrive la sua quartina. In quel momento, lei volge il  capo verso di me e mi sorride.
Vuoi vedere che guardiamo gli stessi film e ora si aspetta un bacio?
Il movimento del suo viso l’ha spostata dall’ombra al cono di luce proiettato dalle persiane socchiuse ed è come se fosse inquadrata dai riflettori; è bellissima.
E’ un segno del destino, penso. Stanno girando il film della nostra vita. Mi sento posseduto da un coraggio straordinario; non potrà certo dirmi di no. Mi chino per incontrare il mio destino su quelle labbra.
“Ah ecco, ci siete voi, compagni, meno male”
Non l’avevo proprio sentito arrivare Giancarlo Martelli, il segretario della sezione.
Compagno Martelli, io ti voglio bene, insieme a te e a tanti altri stiamo cambiando questo Paese. Ma, cazzo, proprio adesso dovevi venire? La rivoluzione non poteva aspettare cinque minuti? La via italiana al socialismo non poteva prendere una piccola deviazione e lasciarmi baciare Carmen? Dopo trent’anni di regime democristiano che fretta c’era? Il partito non poteva aspettare un po’ e darmi il tempo di girare la più bella scena d’amore della mia vita, invece di gridare “Stop”?
Ma che ne sa il compagno Martelli dell’amore? Lui è tutto casa e partito e poi avrà quasi cinquant’anni e se non ha ancora raggiunto la pace dei sensi, ci sarà molto vicino.
Ora che ci penso, nulla so della vita privata di Martelli; come nell’unione sovietica anche in Italia la vita privata dei dirigenti del partito è avvolta nel mistero.
“A proposito, ma il compagno Barbagallo che cosa ha? Sapete niente? Non deve stare bene. Mi ha bloccato giù un sacco di tempo con un discorso strano sul fatto che stiamo sbagliando politica, che ci stiamo sbracando, siamo revisionisti. Era nervoso, e non mi lasciava andare”.
“Ma, non so, forse è preoccupato per l’uscita dei quadri, teme di essere rimandato”. Rispondo svelto, non ricordando la regola classica, letta in tanti romanzi gialli: quando si mente bisogna dire meno cose possibili. Sarebbe bastato un classico “Boh?”.
Carmen mi guarda stranita: Barbagallo è noto per essere un gran studioso e ha quasi la media del nove. E oggi si è preso anche un dieci e lode in amicizia.
“Ragazzi, mi fate un piacere ?”. Fa Martelli, liberandomi dall’imbarazzo.
“Dovreste andare in federazione a prendere del materiale nuovo per il giro porta a porta che faremo più tardi”
Stavolta hai ragione compagno Martelli, meglio uscire, tanto oramai l’incanto si è rotto e dovrò aspettare un’altra occasione.
“Andiamo Carmen. Prendiamo il motorino, così facciamo prima”, propongo all’inconsapevole coprotagonista del mio film d’amore.
Nell’androne del palazzo dov’è la sezione, è parcheggiato il mio motorino, un caballero Fantic Motor. Ci mettiamo in sella e partiamo per le vie tortuose del centro storico. Non so se è per l’atmosfera magica di pochi istanti prima ma sento che Carmen si stringe più forte delle altre volte, non tante, a dire il vero, che è salita sulla mia moto.
Il centro storico di Lecce, gioiello di un barocco leggero ed elegante, è troppo piccolo per farmi gustare questo momento quanto vorrei e arriviamo troppo presto in federazione.
“Mi manda Martelli della Gramsci, compagno” dico a Ronzino, il factotum della federazione, “ci serve il materiale per il porta a porta di stasera”
“Ma siti pacci, cu sciati girando cu stu cautu, invece cu sciati a mare?”. Ci assale subito.
“Ieni, ieni cu mie e damme na manu; stannu de sutta” Dice poi.
Lo accompagno giù mentre Carmen aspetta.
Mentre prendiamo il materiale, mi chiede “Ma cuiddhra nu bbete la figghia de la greca, cuiddra ca lu marito la lassata per na socialista. Beddhra stria, mutu beddhra. Bravu cumpagnu, nu sai quante mende facia ieu quando eru chiu giovane”.
A parte che, visto com’è ridotto adesso, stento molto a credere che sia stato uno sciupafemminne, quando, una marea di anni fa, era giovane, avrei dovuto dire piccato “Un po’ di rispetto, compagno”.
Ma la questione femminile e il tema della parità uomo donna non è ancora stato digerito a pieno da tutto il nostro partito e in particolar modo dai compagni più anziani. Rimane sempre una certa distanza fra la teoria e la pratica.
E poi non ho voglia di far questioni. Per questo rispondo con un sorrisetto di convenienza a metà fra l’imbarazzato e il compiaciuto.
Una parte del materiale lo leghiamo al portapacchi della moto e un’altra la tiene Carmen in mano.
“Ci andiamo a prendere un gelato, prima di tornare; tanto è presto”, suggerisco.
“Al bar di fronte al rettorato che ha i tavoli al fresco sotto gli alberi”
“Si, se vuoi..” Risponde lei non mostrando particolare entusiasmo. Ahi, forse il mio film è finito prima di cominciare.
Al bar si sta proprio bene. A quest’ora il traffico è quasi assente e ci godiamo il fresco e un buon gelato. Mi parla della libreria di sua mamma e di quanto sia piacevole passare il tempo a girellare libera fra i libri.
Mi racconta di un tizio, un insegnante del Liceo Virgilio, che viene sempre in libreria.
“O ha una forte passione per i libri, anche se ne compra pochi, o ha una passione per mia mamma”, mi confida aggiungendo che non le spiacerebbe proprio se sua mamma avesse una storia.
Lei continua a parlare, io la guardo e in realtà non l’ascolto. Lei mangia il gelato e io la mangio con gli occhi. Vederla leccare il cono mi scombussola i sensi, facendomi venire in testa cose di cui conosco molto la teoria ma poco la pratica e che i miei ormoni mi fanno ardentemente desiderare rendendo difficile, se non dolorosa, la seduta, con i jeans stretti che indosso.
“Nu sinti tantu megghiu de lu Ronzinu” mi dice una voce interiore che zittisco immediatamente.
Comunque, distolgo gli occhi da Carmen e dal suo cono e mi guardo intorno.
E’ bella la mia città anche se qui non ci sono chiese barocche o palazzi finemente decorati. Il rettorato era la ex GIL fascista, e di fronte c’è porta Napoli. Poi il mio sguardo si ferma sull’obelisco, un’alta torre dedicata a un qualche Borbone che è proprio di fronte al bar. E mi viene da ridere pensando che gli ormoni hanno di nuovo preso il sopravvento e che Freud ci potrebbe far su un bel ricamo.
“Arturo, Arturo…”
La voce di Carmen ha cambiato tono e volume risvegliandomi immediatamente dai miei pensieri
“Guarda chi sta venendo!”
Mi giro e li vedo arrivare. Sono due picchiatori fascisti tristemente noti in città. Sono piuttosto robusti e per loro fare politica significa esclusivamente picchiare tutti quelli che si dichiarano di sinistra.
Gli argomenti che conoscono meglio e che usano spesso e volentieri per convincere gli altri, sono le mazze e le catene. Per noi basterebbero le mani. In questo periodo, poi, sono particolarmente aggressivi, pieni di rabbia per i nostri successi.
Carmen ed io siamo ragazzi e al di fuori dell’ambiente scolastico, che loro hanno frequentato poco e male, non siamo particolarmente conosciuti e forse non c’è molto da temere e ce la possiamo cavare senza problemi.
Poi vedo che abbiamo lasciato i manifesti su di un tavolo vicino, e sebbene la loro perspicacia non sia proverbiale, c’è troppo rosso su quei volantini, ci sono troppe falce e martello; mi sa che non ce la posiamo cavare.
Sarà che non ho la stoffa dell’eroe, ma so bene quando una ritirata, se fatta con onore e dignità, è molto meglio di una cocente, nonché dolorosa, sconfitta. 
“E’ meglio che andiamo, Carmen” dico e spero che la voce non lasci trapelare tutta la mia paura.
Fortunatamente mi dice di si. Meno male, per un attimo ho avuto il timore che lei volesse invece fare l’eroe trasformando quello che doveva essere un film d’amore in uno tutto pugni e sberle, tipo quelli con Bud Spencer e Terence Hill. Solo che questa volta avrebbero vinto i cattivi. 
Ci alziamo e ci avviamo verso la moto, ma dimentichiamo di prendere il materiale lasciato sul tavolo. Quando me ne rendo conto è troppo tardi, oramai loro sono vicini al tavolo e l’hanno già visto.
Fa niente, penso, ne andremo a prendere dell’altro in federazione. Molto meglio affrontare Ronzino che questi due.
Ma Carmen prende troppo sul serio la storia che una ritirata debba essere onorevole e dignitosa e si avvia verso il tavolo dove avevamo lasciato il materiale. Oddio è fatta, mi riempiranno di botte, penso non senza un leggero fastidio.
Io oramai sono fuori dallo loro vista. Carmen non mostra fretta e si muove con calma. Come fosse del tutto normale, comincia a pulire i tavoli con uno straccio che ha trovato lì vicino.
Carmen è bella, troppo bella per loro che la guardano e per un attimo si dimenticano dei volantini.
“Cosa prendete, ragazzi?”, chiede con una calma olimpica che le deve venire naturale visto che è greca.
I fasci sono colti di sorpresa, storditi dalla naturalezza del suo atteggiamento e, temo, dallo splendore del suo sorriso, e ci cadono dentro con tutte le scarpe.
“Due birre, ma che siano gelate, bellezza”, dice uno dei due.
“Quella robaccia sul quel tavolino di chi è?” chiede poi.
“Di un ragazzo che se n’è andato via di corsa appena vi ha visto arrivare, non ho capito perché”
Sorridono, lusingati del terrore che pensano di aver dispensato.
“Porta tutto qui che ci pensiamo noi” ordina il picchiatore più anziano.
Carmen è intelligente, troppo intelligente per loro e si avvia lentamente a prendere il materiale. Ma io pure non scherzo e accendo il motore. Appena sente il rumore, giunge al tavolo, prende la roba e comincia a correre; mi raggiunge e monta in sella. Loro aprono le bocche sbalorditi e i loro occhi vuoti ci vedono passare davanti con il motorino lanciato a tutto gas.
Abbiamo vinto, abbiamo salvato la pelle e il materiale, ma Carmen vuole stravincere. Quando passiamo loro davanti, urla: ”Vi abbiamo fottuto, fascisti di merda”.
Non so cosa avrebbero fatto se Carmen non li avesse ulteriormente provocati, magari avrebbero fatto finta di niente e si sarebbero bevuti le loro birre. Ma l’insulto diretto, fatto con parole che anche loro possono comprendere, li deve irritare non poco.
Sia come sia, poco dopo sentiamo il rombo di una Kawasaki di grossa cilindrata che ci viene dietro. Hanno deciso di inseguirci e non certo per farci i complimenti.
Con il mio cinquantino, seppure elaborato con un carburatore da venti, non posso certo competere in velocità con una 750. Basta poco, troppo poco, perché ci raggiungano e ci affianchino. Tentano più volte di farci cadere.
Carmen continua ad insultarli e, a questo punto, lo farei anch’io se non fossi a già troppo impegnato nel tentativo di tenere la moto diritta. Fortunatamente ho fatto un po’ di motocross e la mia moto è più maneggevole della loro. Ma non potrò cavarmela in eterno.
Poi mi viene in mente il materiale.”Lanciaglielo in faccia” le suggerisco concitatamente mentre loro ci sono dietro.
Carmen capisce al volo e dopo aver separato un po’ i fogli ne lancia una prima manciata e poi un’altra subito dopo verso i picchiatori motorizzati. Dietro a noi si alza una nuvola di volantini rossi con scritto “Tutti a Sinistra. E’ ora di cambiare”.
Il muro di carta si va a sommare alla nebbia che hanno nel cervello. Hanno un primo sbandamento, la moto scarta lateralmente. Ancora una volta si sono fatti sorprendere e sono disorientati, ma riescono a rimanere in sella.
La mia bella non dà loro tempo di riorganizzarsi, prende un manifesto 2x1, falce, martello e stella con scritto Vota Comunista, lo apre e praticamente lo mette in faccia al guidatore.
Fanno qualche metro, come fossero una moto-sandwich che invita a votare PCI, e poi cadono giù come pere cotte, andando a sbattere contro un cartello che fa pubblicità ad un istituto di istruzione privata che offre due anni di scuola in uno.
A loro i due anni serviranno tutti per metabolizzare la figuraccia che hanno fatto oggi.
Non ci fermiamo per vedere quanto male si sono fatti, speriamo molto. Io, senza pensarci due volte, do tutto gas e mi dirigo verso casa. Mi fermo solo quando mi sento al sicuro nel garage di casa mia in piazza Mazzini. E riprendo a respirare, finalmente.
Scesa dalla moto, Carmen comincia a saltare gridando contenta: ”Li abbiamo fregati, li abbiamo fregati. Siamo grandi”.
Scendo anch’io e in un attimo ci abbracciamo. Ci sembra normale iniziare a baciarci, per consolarci, per premiarci, per festeggiare.
Fra un bacio e un altro, le prendo il viso fra le mani. Affondando nei suoi occhi neri, le dico “Sei bellissima”.
Lei mi sorprende di nuovo, quando dice semplicemente: “Ti amo, Arturo, ti ho sempre amato e ti amerò sempre”
Con il cuore che mi batte ancora più forte di quando ci inseguivano i fascisti, la abbraccio, la bacio, la guardo e poi la guardo, la bacio e l’abbraccio e vorrei che questo momento non finisse mai.
Poi mi sorprendo a pensare a quanto la vita sia realmente buffa; per tutto questo, devo ringraziare due energumeni neri senza cervello che mi volevano riempire di botte, senza il loro assist, sarei ancora a chiedermi come fare.
Quando li vedrò, se mai mi facessero parlare prima di distruggermi, glielo devo proprio dire.
“Grazie, fasci”  
 

2
 
Drin, Drin. Suonare e aspettare.
E’ questa attesa la cosa che mi piace di più della propaganda porta a porta che faccio con altri compagni del PCI. C’è sempre un’incertezza su chi aprirà e su come reagirà, quando useremo la frase iniziale di saluto: “Buon pomeriggio, siamo del Partito Comunista, volevamo parlarle cinque minuti del voto del 20 giugno e lasciarle del materiale che illustra le proposte del partito per migliorare la nostra vita”
La suspense cresce quando si sentono i rumori di chi si appresta a venire ad aprire, le ciabatte che si avvicinano alla porta, o le voci che invitano, più o meno gentilmente, altri membri della famiglia ad andare ad aprire. O quando sono dei bambini che socchiudendo la porta, avvertono i grandi che ci sono dei tipi strani con dei fogli rossi in mano.
Mi piace incontrare la gente e scrutare i loro visi quando ci presentiamo. Adoro indovinare la loro reazione dal primo sguardo o dal lampo che illumina i loro occhi quando diciamo “Partito Comunista” o quando vedono la falce e martello disegnata sui nostri volantini.
Non ci crederete ma perfino oggi negli anni settanta c’è qualcuno, donne quasi sempre, che si fa il segno della croce appena sentono la parola comunista. Manco fossimo ancora nel ‘48 e ancora soggetti a scomunica.
Oggi sono con Anna, una bella donna sulla trentina, bionda naturale con dei grandi occhi tra l’azzurro e il verde e due gambe lunghe e snelle e un seno generoso come, dicono, i suoi comportamenti sentimentali. E’ la cugina di Gianni Margiotta un compagno universitario di qualche anno più grande di me. Vengono da un paese del capo e a Lecce vivono entrambi in una grande casa nel centro storico, che appartiene alla loro nonna che raramente la usa, preferendo vivere in campagna.
Per la verità, anche Anna mi piace. Un po’ troppo grande per me e poi io amo Carmen. Mi sarebbe piaciuto girare insieme, io e lei, ma un po’ non si vuole mandare due ragazzi troppo giovani da soli, e poi dopo quello che è successo l’altro giorno usiamo un po’ di prudenza.
Usciamo il meno possibile e mai da soli per paura di incappare nei due picchiatori che alla fine se la solo cavata fin troppo bene con dei danni solo alla moto e al loro ego. Anche lei sta facendo propaganda porta a porta ed è in coppia con Giancarlo Martelli.
“Ma lo sai che siamo un’ottima squadra” mi fa Anna “Io mi lavoro gli uomini e tu le donne. Hai visto come ti guardava la rossa del secondo piano. Che se stavi da solo non ti faceva uscire di casa.”
“Dai Anna non mi prendere in giro che poi mi imbarazzo davanti alla gente”, le risposi.
“Prenderti in giro? Sei un gran bel ragazzo e lo sai, peraltro”.
In realtà qualunque cosa ne pensi lei, non lo so o, forse peggio, non mi pongo il problema.
Abbiamo quasi finito, ci rimane un ultimo palazzo in via Orsini del Balzo. Fortunatamente ha l’ascensore e non occorrerà fare tante scale. Prima di salire fino all’ultimo piano e poi scendere e bussare a tutte le porte, ci dedichiamo ai due appartamenti al piano terra.
Al primo nessuno apre, mentre nella porta di fronte un signore sulla cinquantina ci apre e ci fa accomodare in cucina, presentandosi come Marco.
E’ gentile ma ci dice subito che non voterà per noi. Pensa che in Italia ci sarebbe bisogno di maggior giustizia sociale e che anche le classi più povere abbiano diritto agli stessi servizi dei ricchi.
“Bisognerebbe spendere più per scuole, ospedali e università” aggiunge.
“Ma io amo più di tutto la libertà e non vorrei fare la fine di Solgenitsin in Unione Sovietica”, conclude per giustificare che, sebbene condivida le nostre battaglie, non ci voterà.
Anna lo guarda dritto negli occhi. ”Ma noi nulla abbiamo a che fare con il comunismo che c’è in Russia. Noi crediamo sopra ogni cosa nella democrazia e nella libertà, perché pensiamo che non ci possa mai essere giustizia sociale senza libertà. Nei regimi autoritari ci saranno sempre dei prepotenti che si approfitteranno dei deboli, così come da noi i ricchi si approfittano dei poveri o i padroni degli operai”
“Sarà…” dice dubbioso Marco.
Dopo aver rifiutato ancora una volta il caffè che gentilmente si offre di preparare, lo salutiamo e andiamo a prendere l’ascensore.
Oramai è quasi ora di cena e nella tromba delle scale gli odori dei piatti che vengono preparati si mescolano fra loro come a creare il profumo di una grande cena collettiva.
“Senti Arturo….”, osserva Anna, “qualcuno sta friggendo del pesce. Te la mangeresti una bella frittura adesso, eh?”
 “Guarda, preferirei un bel piatto di cozze aperte all’ampa, ma mi posso accontentare”, rispondo, mentre entriamo nell’ascensore.
“No, Arturo, mai accontentarsi”, continua pigiando il pulsante dell’ultimo piano.
“Specie all’età tua non devi cominciare ad accontentarti, poi ti abitui e ti adagi e il “chi si accontenta gode” diventa una droga di cui non riesci più a fare a meno. E smetti di sognare e di vivere”.
Mi colpisce la punta di amarezza della frase. Sorride maliziosamente come se fosse solo una provocazione, buttata lì per passare il tempo, ma non può nascondere al mio sguardo una lampo di tristezza negli occhi.
Sto per dire qualcosa, cercando nel repertorio delle cose simpatiche ed intelligenti, quando siamo entrambi colpiti da un rumore sordo di ferraglia cui fa seguito l’arresto dell’ascensore.
“Si è bloccato”, dico sfoderando tutte le mie capacità deduttive.
“E come l’hai capito…?”.
Proviamo a chiudere meglio le porte e poi pigiamo di nuovo il pulsante dell’ultimo piano e poi di uno qualsiasi dei piani dello stabile. Ma rimaniamo fermi.
Non ci resta che premere il pulsante di allarme. Prima una volta per poco tempo e poi, visto che nessuno si fa sentire, una seconda volta più a lungo e una terza ancora più a lungo.
Finalmente sentiamo una voce.
“Chi c’è nell’ascensore?”
La riconosciamo è quella di Marco.
“Marco, siamo noi, io ed Anna, quelli del PCI. L’ascensore si è bloccato”
“Ok, non vi preoccupate. Ora cerco l’amministratore; ha lui le chiavi della stanza dove ci sono i comandi manuali. Un po’ di pazienza”.
“Arturo, a me non piace stare chiusa qui dentro”
“A me invece piace un casino”
“No, Arturo, dico sul serio, soffro di claustrofobia. Apri le portiere, almeno”
Vedo che il suo viso si è fatto contratto e gli occhi vagano  nervosi per l’angusta cabina. E’ impallidita. Si appoggia alla parete e si piega in avanti.
Metto un po’ di volantini sul pianale che non brilla per candore e la invito a sedersi per terra.
Anna prima si accovaccia, poi allunga le gambe lunghe e belle e si accomoda per terra. Mi siedo vicino a lei.
“Stai tranquilla, Anna. Adesso ci tirano fuori. Si tratta di pochi minuti”
“Non so se ce la faccio. Comincio ad avere l’affanno”
“Mi manca il respiro, Arturo. E se non trovassero le chiavi?”
Mi avvicino a lei, la cingo con le braccia e lei si appoggia su di me.
“Chiudi gli occhi, Anna, e immagina che siamo da un‘altra parte. Fai conto che siamo al mare. Siamo in una cabina a San Cataldo, al fresco, perché fuori c’è troppo caldo. Le senti le voci dei ragazzi che giocano a tamburello? Se fai attenzione, senti le urla di quello che vende cocco e mandorle fresche sulla spiaggia”
“Possiamo uscire quando vogliamo; ma qui al fresco si sta una meraviglia”.
“E tu che ci fai solo con me in una cabina? Carmen che direbbe se sapesse che ci chiudiamo in una cabina al mare?”
“E tu che ne sai di Carmen?”
“Ma se tutti in sezione aspettavamo che vi metteste insieme: era così evidente che lei ti moriva dietro”.
“Siete stati insieme? Avete fatto già l’amore?
“Senti Anna, parliamo d’altro”
“Ho capito, fa la preziosa, se la conserva per dopo. Ti ha detto che non è ancora pronta, vero? Che sono stupide le ragazzine, non capiscono che proprio quando si è giovani, bisognerebbe fare l’amore tutti i giorni che poi diventa tutto più complicato e squallido”.
“Non mi va di parlare di queste cose, Anna”
“Guarda che sei tu che mi hai portato in una cabina al mare e che mi stai abbracciando. Mica stiamo chiusi in un ascensore, vero?”
“E da quel che vedo non sei rimasto del tutto insensibile al mio fascino”
In effetti il mio stato di eccitazione è evidente, e non ci posso far niente. La fantasia della cabina che avevo inventato solo per tranquillizzarla, la vista delle sue gambe e il suo seno molto vicino, mi stanno turbando non poco. Le sue parole e la sua voce hanno fatto il resto.
Lei prende una mano e l’appoggia sulle sue gambe. Si gira verso di me e mi bacia il viso, gli occhi, le labbra. E mi infila la lingua in bocca.
Le accarezzo le gambe e ricambio il bacio.
Sento quasi il forte odore di sabbia che c’è sempre in tutte le cabine.
“Ehi voi. Adesso cominciamo a tirarvi giù al piano più vicino. Chiudete le portiere”.
La voce di Marco mi coglie quasi di sorpresa, non sapevo che fosse venuto al mare anche lui.
Anna si rianima subito, mi accarezza il viso e mi sussurra: “Quando mi spavento perdo un po’ il controllo. Peccato però stavo bene in quella cabina”.
“Era ora”, grida verso i soccorritori, e chiude le portiere “Porte chiuse”, avverte in fine Marco
Poi torna a darmi un ultimo bacio, prima di sistemarsi la gonna e la camicetta.
Sentiamo la cabina muoversi e scendere lentamente fino al secondo piano.
Raccogliamo tutto il materiale che avevamo messo per terra e finalmente apriamo le porte.
Appena fuori, ringrazio Marco e scappo via.
Non voglio correre il rischio di incontrare lo sguardo di Anna e ancor meno quello di Carmen.
  
3

La colla che prepara Ronzino è poco meno che perfetta. E’ un segreto come la prepari, ma attacca che è un piacere; non è né troppo liquida, né troppo densa. La mette in un vecchio bidoncino di pittura e noi la usiamo per attaccare i manifesti ai muri.
Siamo in quattro, quasi tutta la segreteria provinciale della FGCI. Questi lavori si fanno sempre di sera tardi, ma l’aria è tiepida anche se siamo solo alla fine di aprile e sono le undici e mezzo.
Io generalmente non faccio attacchinaggio perché ai miei non piace che me ne vada girando di notte nella città deserta ad attaccare manifesti. Non me lo impedirebbero, perché non sono autoritari, ma so che mia madre sarebbe in ansia e mi aspetterebbe alzata fino al mio ritorno. E mio padre mi farebbe il giorno dopo un lungo discorso sul fatto che a una certa età non fa bene perdere ore di sonno.
“E poi ricordati che fra pochi mesi hai la maturità”. Questa è la conclusione di quasi tutti i discorsi che mi fa, da quando ho iniziato la terza liceo.
I miei sono entrambi insegnanti, fieri di esserlo. E la scuola è il centro della loro vita.
Questa sera, però, non dormo a casa. I genitori di mio cugino Stefano sono in viaggio e io dormo a casa sua per non lasciarlo solo. Per i miei ora sono a casa sua, presumibilmente già a dormire.
E invece sono dentro porta San Biagio, all’inizio di Corso Vittorio Emanuele ad attaccare manifesti in cui si pubblicizza un’iniziativa congiunta della FGCI e del partito sulla disoccupazione giovanile.
Non è faticoso e alla fine ci si diverte diluendo la monotonia con battute e piccoli scherzi. 
Sarà per questo che penso che Nicola scherzi quando mi si avvicina circospetto e mi chiede:
“Ma il tizio sulla quella macchina non è il fascista del bar con Carmen?”
“Guarda che ho un pennello imbrattato di colla in mano, e so come usarlo” gli rispondo scherzosamente irato pensando all’ennesima presa in giro sull’oramai fin troppo famoso episodio, avvenuto quasi un anno fa.
E invece dentro una 850 abarth seduto al posto di dietro, insieme ad altri due loschi individui, c’è proprio lui e mi guarda. E non è certo uno sguardo affettuoso.
“Saliamo in macchina e andiamo via” suggerisce Luigi, il segretario provinciale della FGCI, fermamente deciso ad evitare qualsiasi provocazione.
Io lo seguo subito. Fermamente deciso ad evitare qualsiasi randellata di botte.
Entriamo nella macchina di Sergio che guida con Nicola alla sua destra. Io sono dietro al guidatore e Luigi mi sta accanto.
“Ci stanno venendo dietro, Sergio veloce” Luigi è voltato indietro e osserva quel che fanno i nostri amici.
La nostra auto è uscita da porta san Biagio e percorre il viale degli studenti in direzione dell’obelisco.
La loro macchina è più veloce e ben presto ci affianca.
Subito dopo vedo che il tizio accanto all’autista prende qualcosa dal sedile posteriore.
All’inizio non riesco a capire bene cosa sia. E’ grande una quindicina di centimetri e ha un manico e una canna. Sembra quasi una pistola.
Il tizio apre il finestrino e la caccia fuori.
Mi sbagliavo, non sembra una pistola, è una pistola.
E’ la più grande pistola che abbia mai visto.
Quel che è peggio è la prima pistola che mi viene puntata contro e non me ne frega quanto sia grande. Ho paura.
“Fermatevi” ordinano dalla macchina.
“Col cazzo” avremmo risposto se solo avessimo avuto la forza di farlo.
Sergio accelera, ma accelerano anche loro.
Io e Luigi ci stendiamo giù sui sedili. I nostri occhi si incontrano e come in uno specchio, leggo la mia paura riflessa nella sua.
Non sono uno particolarmente coraggioso, ma ho messo in conto che fra fascisti e autonomi ci sia pure il rischio di essere preso a botte, magari anche violentemente.
Ma una pistola è qualcosa di diverso. Non voglio essere sparato e non voglio morire. Il ruolo del martire non mi piace.
Steso sul sedile non vedo niente, sento solo Sergio imprecare, quando frena inchiodando.
“Porca troia, ci hanno chiuso.”
Capisco che hanno messo la loro 850 di traverso alla nostra per bloccarci la strada, come in un telefilm americano.
Al solo pensiero che saremmo potuti andare con la piccola Dyane di mio fratello e che ora ci potessi esser io, neo patentato, al posto di Sergio, mi viene da vomitare. Alla scuola guida non mi hanno detto come fare in caso d’inseguimento.
Invece Sergio è bravo, ha sangue freddo e non si lascia sopraffare dallo spavento. Ingrana la retromarcia e ci facciamo di nuovo tutto il viale degli studenti in retromarcia.
Il suo respiro affannato, lo stridio delle ruote, la voce fievole di Nicola che prega la Madonna, il battito della nostra paura è tutto quello che percepisco.
“Cazzo, no! Ci sono addosso di nuovo” grida Sergio.
E allora capisco che devono aver fatto manovra e ci stanno venendo dietro.
Quando siamo di nuovo davanti a porta Rudie, la nostra corsa è finita. Siamo fermi.
“Riparti Sergio, riparti ”
“Dove cazzo vado, ci bloccano”
Si sono messi con la macchina davanti alla nostra e siamo chiusi.
Dietro le mura della mia bella Lecce, davanti una pistola.
“Ha preso la pistola, ora spara”, dice Sergio prima di stendersi anche lui.
Aspettiamo i colpi. Per dei secondi che sembrano secoli niente succede. Sono sicuro che stiano per sparare, ma vigliaccamente penso che siamo quattro, è probabile colpiscano qualcun altro. Non possono ucciderci tutti.
E se invece ci facessero scientificamente fuori tutti per non lasciare alcun testimone? Il nostro amico sa che l’abbiamo riconosciuto e non se la potrebbe cavare.
Ora ne son sicuro, ci uccideranno tutti.
Diventeremo uno dei tanti misteri di Italia. Quattro figgicciotti uccisi in circostanze oscure.
Dopo succederà un casino. Mi immagino lo sciopero generale, le manifestazioni, i funerali. Il PCI è nella maggioranza di governo e chiederà con tutte le sue forze che venga fatta luce. Forse potrebbe anche cadere il governo su “la strage di Lecce”.
Non me ne fotte un cazzo. Non voglio fare l’eroe, sono troppo giovane per diventare un nome gridato forte in un corteo. E troppo presto per morire e poi sono ancora vergine.
Mi viene in mente mia mamma e il suo viso quando le daranno la notizia. Quasi, quasi la vedo seduta davanti alla bara nella chiesa di San Lazzaro dove sono stato battezzato e dove ho fatto la comunione e cresima.
Mi ricordassi qualche preghiera anch’io, forse sarebbe meglio e invece andavo al catechismo solo perché mi piaceva la Marinella.
Tutto tace, nessuno si muove. Sembra che in macchina nessuno respiri. Ancora non hanno sparato.
La mia mano si muove verso la maniglia della portiera. Non so chi mi abbia dato la forza, ma apro la portiera e piano scendo dalla vettura con le braccia alzate come nei film polizieschi.
“Ti chiedo scusa, perdonami” dico con la voce tremante “prendimi pure a botte, ma ti prego non sparare. Pensa alle nostre mamme”.
Il tipaccio con la pistola scende dalla macchina.
“Polizia. Antiterrorismo. Uscite tutti con le mani in alto”.
Polizia, polizia ? E io che avevo invocato le mamme. Ma la polizia non insegue militanti politici che affiggono manifesti.
Luigi prende in mano la situazione.
“Sono il segretario provinciale della FGCI e sono membro della segreteria del PCI. Se avete qualcosa da addebitarci andiamo immediatamente in questura”
Alla squadra politica della questura ci conoscono bene. Io ci vado un giorno si e un altro pure a consegnare copia dei volantini che distribuiamo. Uno dei dirigenti della squadra politica ha una figlia che frequenta il mio stesso liceo, il Palmieri. Mesi fa, poco prima di un’ occupazione, davanti alla scuola mi prese sottobraccio dicendomi che faceva affidamento su di me, perché le cose non superassero i limiti della protesta civile e pacifica.
Pochi minuti dopo siamo in questura. Il fascista sparisce e rimangono solo i due poliziotti dell’antiterrorismo.
L’agente di turno alla squadra politica ci riconosce immediatamente e meravigliato chiede cosa sia successo.
“Collega, lascia stare. Il caso è nostro”. Gli dice a brutto muso quello con la pistola e la faccia cattiva.
Ma chi cazzo si crede di essere, l’ispettore Callagnan?
Pensavo che nella realtà nessuno pronunciasse veramente una frase del genere. E mai immaginavo di poterla ascoltare dal vivo. E ancor meno di poter essere io, il caso.
“Ci serve una stanza per l’interrogatorio”
Interrogatorio? Ma allora è vero che siamo in pieno telefilm.
Sergio mi da una sigaretta, anche se io in realtà non fumo, ma son troppo teso e voglio qualcosa in mano e in bocca. Il più arrabbiato dei due, con la mano me la fa saltare via.
“Che pensi che siamo al bar, bastardo?”
Poi mi ordina di raccoglierla da terra e di buttarla nel cestino. 
Mi interrogano per ultimo.
Il cosiddetto interrogatorio individuale non è altro che l’occasione per coprirmi d’insulti e minacce.
E non è un  interrogatorio perché le risposte non le vogliono.
“Te la sei cavata per questa volta. Ma la prossima ti spariamo senza pietà”
“Voi comunisti state rovinando questo paese, ma ora ci siamo noi e vi massacreremo tutti”
“Noi non siamo come queste donnicciole che conoscete qua. Noi siamo dei duri e non abbiamo paura di niente, non abbiamo paura di uccidere”
“D’ora in poi guardati le spalle quando torni a casa, e stai sicuro che quando accadrà non vedrai la pistola ma sentirai solo la pallottola”.
Alle due di notte sono fuori dalla questura. Adesso fa freddo e Sergio mi aspetta di fuori.
“Bene, sei fuori anche tu. Vedi che loro sono andati subito a parlare con Frisullo per denunciare la cosa e far partire subito la macchina del partito. Non possono farci quello che ci hanno fatto oggi”.
Sandro Frisullo era segretario provinciale della FGCI, quando io mi sono iscritto e ora è vice-segretario provinciale del partito. Sandro mi piace: un ragazzo intelligente e simpatico. E’ un gran compagno che ha anche saputo contrastare la sua balbuzie con impegno e forza di volontà. Mi ispira fiducia, credo in lui, lo considero il mio punto di riferimento nel partito e lo seguirei dappertutto.
“Sergio è a dai Margiotta, perché al momento è senza casa. Ti aspettano là. Ti accompagno e poi vado via, che devo arrivare fino a Poggiardo”
Busso a casa Margiotta. Mi apre Anna che non vedevo da un po’.
“Ci sono Luigi e gli altri?”, chiedo.
“Sandro è a Bari. Mi hanno raccontato quel che è successo e poi sono andati a svegliare Toma il segretario provinciale e a telefonare a Roma”.
Ha indosso solo una sottoveste celeste piuttosto trasparente e non ha il reggiseno. Mi chiedo se abbia ricevuto così anche gli altri o se è uno spettacolo che ha preparato solo per me.
“Vabbè allora io vado a casa, non ho voglia di passare da Toma”
“Non vuoi che ti faccia qualcosa, un po’ d’acqua, un caffè, o meglio una camomilla. Guardati, non puoi tornare a casa in quello stato”.
“Ma si va, dammi un bicchiere d’acqua”
“E poi non vuoi che ti aiuti a rilassarti? Come facesti tu con me quella volta in ascensore?”
“Si”
Quando arrivo sotto casa di Stefano sono sconvolto. E’ stato bello, anzi bellissimo. Ma Carmen non lo deve sapere.
E se lo sapesse o lo intuisse e se me lo chiedesse, io cosa le direi?
Non sarò capace di reggere il suo sguardo domani.
Cazzo, cazzo, cazzo, non avrei dovuto farlo.

4
 
E’ la seconda volta che passo davanti alla libreria. Mi chiedo se Cristina mi abbia notato. Non ho il coraggio di entrare, anche se so che Carmen non c’è. Parto deciso, ma appena vicino alla porta tiro dritto.
Invece Cristina mi ha visto, perché, la terza volta che passo, bussa sul vetro della vetrina e mi fa segno d’entrare.
“Scommetto che passavi di qui per caso e volevi vedere se c’era Carmen”, mi dice con una voce di dolce rimprovero. Ha gli stessi occhi profondi e luminosi di Carmen e lo stesso sorriso disarmante. Ha ancora un bel corpo nonostante l’età. Mi chiedo come abbia fatto il papà di Carmen. Ma sono l’ultimo che possa permettersi il lusso di fare certe domande.
“Lo sa che non è un caso, signora. E so che Carmen non c’è. Ma speravo mi dicesse dov’è e come posso vederla.”
“Al telefono non risponde”.
“E’ partita. E’ andata in Grecia da suo padre”
“Ma come, per sempre? E la scuola?”
“Non lo so se è per sempre. Spero di no. Per la scuola, ho parlato con gli insegnanti. Andava bene in tutte le materie. Se salta gli ultimi giorni non fa nulla. Presenteremo un certificato medico”
“Mi può dare il suo indirizzo? Le volevo scrivere”
“Arturo, mi dispiace, ho fatto solenne promessa di non darti alcun recapito, né telefonico né postale. Vuole star da sola. E non vuole vederti”.
La guardo senza avere il coraggio di dir nulla.
Deve però aver letto i miei occhi postulanti, perché conclude:
“E non insistere, per favore”.
“Ho capito, grazie”.
Con la testa china, faccio per uscire dalla libreria. Ma lei  mi richiama.
“Aspetta. Mi ha detto di darti questa se fossi venuto a cercarla”
E mi consegna una busta chiusa.
Appena uscito dal negozio, seduto sul sellino della moto parcheggiata in un angolo ombroso, apro la busta e trovo una sua lettera.
 Arturo,
se leggi questa lettera è perché mi hai cercato. E di questo sono contenta. Mi sarebbe dispiaciuto se non tu l’avessi fatto, e sarei stata delusa perché ero sicura che l’Arturo che pensavo di conoscere l’avrebbe fatto. Ma se leggi questa lettera significa anche che non mi hai trovata. E ti dico sinceramente che non mi troverai più. Mentre la stai leggendo io sono in Grecia e non so ancora se tornerò mai più a Lecce.
Ti conosco e so che capisci benissimo quanto male tu mi hai fatto e quanto io stia soffrendo. E se mi fossi vicino, o se solo ti dessi la possibilità di dirmelo per telefono o di scrivermelo, mi diresti che per questo ti senti un verme e se tornassi indietro….
Ma indietro non si può tornare, il tempo va solo avanti. Quello che abbiamo fatto o detto rimane impresso in modo indelebile  nei nostri ricordi o nei ricordi degli altri.
Mia mamma m’ha detto che sarei dovuta rimanere e che non dovevo fuggire da te. Non dobbiamo permettere agli uomini di rovinarci la vita o comunque di costringerci a cambiarla.
Ma la mamma non ha capito che io non fuggo da te, io fuggo da me. Io ti amo in modo che non si può dire, scrivere o raccontare (vedi che ho usato il presente, senza finzioni, come sempre fra noi). Ma quest’amore che mi sembrava la cosa più bella che avessi mai avuto e mi rendeva felice anche prima che ci mettessimo insieme, ora mi spaventa anzi mi terrorizza.
Mi spavento quando mi sorprendo a pensare cosa avrei potuto fare di diverso perché tu non facessi ciò che hai fatto. Mi spaventa pensare che se fossimo vicini non desidererei altro che tornare con te e so benissimo che non potrebbe essere, che non sarebbe sano.
Mi son chiesta tante volte perché l’hai fatto. Ti conosco e so che non è perche Anna è una zoccola (scusami mi è scappata) o perché ancora non mi sentivo pronta a fare l’amore con te.
Secondo me la ragione è un’altra anche se non l’ammetterai. Eri arrabbiato con me perché ero uscita dal partito: l’hai considerato un tradimento personale. Sia perché tu hai (per lettera te lo posso dire) mitizzato il PCI: per te non è più solo uno strumento di azione politica, è un luogo dell’anima, è un padre e una madre da cui non ci si può separare. E poi perché hai considerato un tuo fallimento personale non essere riuscito a convincermi. Benché diciate e magari pensiate cose diverse, anche voi di sinistra rimanete profondamente maschilisti. E ti sei sentito colpito nel tuo ruolo virile quando ti sei accorto che non ti davo retta, che non facevo quello che tu mi dicevi.
E ti sei vendicato con quella troia di Anna (stavolta non mi è scappato, se lo merita). Lei si che ti avrà fatto sentire uomo.
E pensa che io amo alla follia anche questi tuoi difetti. Non ci crederai, e un po’ mi vergogno a dirlo, ma ho amato anche l’Arturo che mi puniva scopando con Anna.
Ora capisci anche tu che dovevo andar via che da questo amore; non potevo far altro che scappare. Senza di te forse non sarò felice, ma spero di essere libera.
Ti prego non mi cercare, Carmen. 

E non ti ho cercata.  

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